Politico anomalo che piaceva alla gente e amava il Pescara

11 Maggio 2017

I pescaresi avevano imparato a conoscere Pino Ciccantelli prima che diventasse il loro sindaco. Ogni sera, si affacciava dallo schermo di Telemare, facendo il punto della giornata sullo sport in...

I pescaresi avevano imparato a conoscere Pino Ciccantelli prima che diventasse il loro sindaco. Ogni sera, si affacciava dallo schermo di Telemare, facendo il punto della giornata sullo sport in città e, soprattutto sul Pescara che, in quegli anni, fra la fine dei Settanta e la metà degli Ottanta, navigava fra serie A e serie B. Allora come oggi, verrebbe da dire, se a separarci da quella Pescara non ci fosse il mare di epoche diverse, inconciliabili con quella attuale. Alla politica, Ciccantelli ci arrivò da giovane, nella Democrazia cristiana.
Ma il salto fra la militanza e il potere vero avvenne nel 1990, quando fu eletto consigliere comunale e poi sindaco. Allora i sindaci non venivano scelti direttamente dagli elettori con i loro voti. A decidere chi dovesse diventare primo cittadino erano i partiti in base soprattutto alle alchimie delle correnti e delle alleanze. Ciccantelli era un democristiano gaspariano, della corrente maggioritaria in Abruzzo ma che a Pescara aveva dovuto sopportare, quasi senza soluzione di continuità, quindici anni di sindaci andreottiani: prima Alberto Casalini dal 1975 al 1985 e poi, dal 1987 al 1989, Nevio Piscione, uno dei tre sindaci (l’altro è Carlo Pace) che sono morti nel giro di poco più di un mese.
Ciccantelli arrivò a sedersi sulla poltrona politica più importante di Pescara portando con sé un bagaglio leggero di amministratore ma cospicuo di simpatia popolare. Era giovane, aveva appena 44 anni quando fu eletto, un’età da lattante per quella carica nella prima Repubblica. Ed era ben voluto anche dalle opposizioni che in lui vedevano, più che il politico longa manus di Remo Gaspari, una sorta di amico e complice di giovanili baldanze, fatte soprattutto di serate da ballo, partite di calcio e gioia di vivere in quella Pescara che, fedele alla sua natura di città aperta e senza radici, era renitente a consegnarsi alla mesta rassegnazione del flaianeo motto, “coraggio, il meglio è passato”, che domina i tempi che corrono.
La gioventù di Ciccantelli si rifletteva in quella di un altro sindaco, quello di Chieti, Andrea Buracchio, dc e gaspariano come lui, ma, a differenza di lui, figlio di una dinastia politica potente nella città che alla Balena bianca tributava consensi elettorali che si aggiravano intorno al 60 per cento. Erano convinti un po’ tutti, in quegli anni, che Ciccantelli e Buracchio fossero i giovani cavalli di razza che zio Remo aveva messo in campo e in competizione per aggiudicarsi la sua eredità politica. Lo sapeva Buracchio e lo sapeva Ciccantelli, al quale però la politica stava sempre un po’ stretta, curioso com’era della varietà della vita che mal tollerava di essere ingabbiata dalle strategie della politica. Non sapevano, né lui né il suo dirimpettaio teatino, che quello che sembrava un promettente inizio di carriera si sarebbe rivelato invece una sorta di atto interrotto. Alle porte di quel 1990, infatti, c’era il 1992, anno primo delle inchieste di Mani Pulite, carico di destino e macinatore di sorti individuali e collettive. Per entrambi, la luce piena di quell’alba politica si trasmutò presto nella penombra di un tramonto repentino. Il 1993 segnò la fine di quel sogno.
Ciccantelli e Buracchio finirono indagati e agli arresti per la Tangentopoli abruzzese. Il sindaco di Pescara ammise subito di aver preso soldi e di averli dati al suo partito. Una spiegazione che, in tante storie di quella stagione drammatica, si rivelò una giustificazione inverosimile, ma che, nel suo caso, suonò come sincera ammissione di estraneità a un gioco, quello del finanziamento illecito della politica, al quale lui aveva partecipato di malavoglia con un senso di rigetto di un mondo in cui era finito quasi per caso. Si dimise da sindaco, Ciccantelli, ma fece anche qualcosa di più, qualcosa che in tanti, nella commedia della politica italiana di ieri e di oggi, hanno promesso e promettono invano di fare: si ritirò a vita privata. Visse del suo lavoro. Gestì una società di recupero crediti. Scelse il cono d’ombra che spaventa molti di quelli che hanno assaggiato il frutto proibito della notorietà, ma che a lui apparve come un’oasi sospirata.
Per 23 anni non ruppe mai il silenzio che si era autoimposto, se non per una lunga intervista rilasciata, il 24 gennaio 2016, al Centro che oggi riproponiamo in sintesi. Sulla politica non aveva cambiato idea: «La mia esperienza mi ha insegnato che la politica è l’elemento essenziale per la vita della democrazia, ma anche, che tira fuori sempre l’aspetto deteriore dell’uomo. Non c’è niente da fare. E non ci ritornerei mai. La politica era la mia passione, ma non era tutto».