Porto, 100 lavoratori senza garanzie
Cassa integrazione in scadenza per i dipendenti delle aziende bloccate dalla chiusura dello scalo per il mancato dragaggio
PESCARA. Trecento giorni di chiusura del porto e nessuna garanzia per i cento dipendenti che un tempo spendevano forze ed energie per tirare in secco le barche, curare le spedizioni, la logistica, i servizi alle merci e alle navi, portare avanti l’agenzia doganale e le compagnie marittime che rimpolpavano l’indotto dello scalo. Il 31 dicembre scade la cassa integrazione in deroga per gli unici lavoratori che non hanno ottenuto nessun sussidio statale attraverso il decreto crescita del Governo Monti.
Le venti aziende che si avviano a chiudere il 2012 segnando uno zero tondo sotto la riga degli utili, si trovano a un passo da baratro e ripongono tutte le loro speranze in una proroga in extremis degli ammortizzatori sociali. Un regalo di Natale da scartare sotto l’albero, aspettando con trepidazione l’avvio del dragaggio, la riapertura dello scalo e il rispetto di quegli impegni verbali assunti dai diversi rappresentanti politici locali e nazionali. Al momento i fondi promessi dallo Stato sono i 3 milioni di euro per i marinai, che si aggiungono agli incentivi per il fermo pesca e alle spese per sostenere i lavori di dragaggio (10 milioni per i 200mila metri cubi di materiali più altri 9 milioni compresi nel decreto crescita). Nulla è arrivato per i cento operatori del porto che si trovano con l’acqua alla gola.
Per tastare il polso della crisi basta confrontare gli incassi di una compagnia marittima di piccole dimensioni, passata da un ricavo netto di 20/30mila euro all’anno a meno di zero. Perché ai mancati guadagni si aggiungono le tasse e le spese ordinarie.
«Tutti noi», ammette Bruno Santori, titolare dell’impresa portuale Sanmar, «abbiamo fatto sforzi enormi per evitare un’ondata di licenziamenti. Ma adesso c’è bisogno dell’aiuto concreto delle istituzioni per tutte quelle aziende che hanno smesso di guadagnare dall’estate 2011, da quando cioè è stato sospeso il collegamento marittimo con la Croazia». In bilico ci sono la proposta di legge regionale per destinare 300mila euro alle imprese del settore terziario e portuale finite sul lastrico a causa della chiusura dello scalo, e i 100mila euro promessi dal presidente della Camera di Commercio Daniele Becci.
Il dissesto economico e finanziario dell’indotto portuale è confermato dagli stessi operatori che da mesi sono costretti a incrociare le braccia. Andrea Tiberio, socio della Servimar, la ditta che curava i servizi antincendio e antinquinamento, riconosce che da un anno a questa parte il suo fatturato è sceso ben al di sotto dello zero. «Abbiamo speso 200mila euro per comprare una serie di attrezzature specifiche per il porto di Pescara», dice, «macchinari acquistati e mai utilizzati che non possono essere trasportati in altri posti. Paghiamo una concessione demaniale salatissima per tenere i container sul molo e abbiamo investito non so più quanto per i corsi di formazione dei dipendenti. Per evitare il deterioramento degli attrezzi siamo costretti ad effettuare una manutenzione costante e sono altri soldi». I 14 lavoratori (4 inquadrati nell’amministrativo e 10 nell’operativo) attualmente sono in cassa integrazione per il 90 per cento. «Tra breve scade anche questa», dice Tiberio, «e non so più come andare avanti. Licenziamenti? Spero vivamente di evitarli». Christian Sardo del gruppo ormeggiatori racconta di essere passato da 60mila euro di introiti annuali a meno di zero negli ultimi 12 mesi. Stesso discorso per Domenico Bozzuto (cantieri navali), che dice di non tirare in secco una barca tre anni. «Avevo 5 dipendenti», rimarca, «adesso due e mezzo, perché uno lavora metà giornata. Ma di questo passo dovrò tagliare ancora».
Ylenia Gifuni
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