Renzi si dimette, ma a crisi risolta
Il segretario ammette: «Sconfitta netta, impone di aprire una pagina nuova». Lunedì la direzione. I big del partito lo contestano e chiedono una fase collegiale
ROMA. Matteo Renzi lascia la segreteria del Partito democratico. La sconfitta «chiara, netta», che porta il partito ai minimi storici del centrosinistra italiano, con il 18,7% alla Camera e il 19,1% al Senato, «impone di aprire una pagina nuova all'interno del Pd». Il segretario lo decide nella notte dello spoglio, lo matura in mattinata e lo annuncia solo alle 18 della sera successiva, quando con voce un po’ impastata e un foglietto di appunti, annuncia alla stampa che «è ovvio dover lasciare». Sul «come» però si consuma uno strappo che ridisegna gli equilibri nel partito.
Renzi annuncia che gestirà la fase di insediamento delle Camere e formazione del governo, per evitare ogni possibile accordo con il M5s. Ma i «big» di maggioranza e minoranza insorgono e prendono le distanze dal leader. Luigi Zanda firma una nota durissima, il cui contenuto sarebbe condiviso da Dario Franceschini, in cui accusa Renzi di «manovre» per «prendere tempo». «Le dimissioni si danno, non si annunciano», attacca Anna Finocchiaro. E in ambienti Dem trapela il disappunto anche di renziani di rango come Graziano Delrio e Maurizio Martina, che va in pressing per un percorso chiaro e collegiale, senza rotture.
Il premier Paolo Gentiloni, che ha vinto superando di gran lunga le medie del Pd nel suo collegio di Roma, trascorre la giornata al lavoro a Palazzo Chigi e non commenta le parole del segretario. Ma il pensiero di Zanda, con cui il legame si è stretto ancor più negli ultimi mesi, sarebbe da lui condiviso. «Le dimissioni sono verissime», della gestione della prossima fase si parlerà «lunedì in direzione», interviene dal Nazareno Lorenzo Guerini. Ma non basta a calmare le acque: la resa dei conti, rinviata dopo i dissidi sulle liste, è in pieno corso.
Per tutta la giornata, raccontano fonti non renziane, vanno avanti i contatti con il segretario. La richiesta dei «big» della maggioranza è lasciare al vicesegretario Maurizio Martina, come a suo tempo fecero Veltroni e Bersani, la guida del partito fino al congresso. Renzi ipotizza una reggenza di transizione - ma i renziani negano sia così - per Matteo Orfini.
Il punto è chi gestirà la fase che si apre da subito, per l'elezione dei presidenti delle Camere, la guida dei gruppi, la formazione del governo. Serve una gestione «collegiale», dicono i «big» a Renzi. Ma lui intende avere voce in capitolo: formalizzerà le dimissioni in assemblea solo dopo la nascita di un governo. «Niente reggenze o caminetti - dichiara - serve un congresso con un confronto vero e un segretario eletto con le primarie». Nella sua analisi del voto, il leader Dem promette: «Nessuna fuga, farò il senatore semplice». E spiega che sarà «garante», con gli elettori, del no a fare la «stampella» a un governo con il M5s, provando così a stoppare sul nascere le suggestioni della minoranza «emiliana» che invita a ragionare su un sostegno esterno al governo 5 stelle. Quanto all'analisi della sconfitta, Renzi indica, su tutti, due «errori»: «Non votare in una delle due finestre del 2017» in cui si andava alle urne in Francia e Germania e si poteva godere della spinta europeista; fare una campagna elettorale «fin troppo tecnica».
Ma così, sintetizza Carlo Calenda, che pure aveva difeso il segretario, dà la colpa a Mattarella per il mancato voto e a Gentiloni per l'impostazione della campagna: «Fuori dal mondo». Il partito è sull'orlo della rottura, gli avversari interni sibilano il sospetto che Renzi si ricandidi alle primarie. E la minoranza attacca come mai prima. «Cerca alibi, non servono bunker ma pluralismo», afferma Andrea Orlando. E Michele Emiliano: «Renzi punta all'autoconservazione». «Queste dimissioni fake avvelenano i pozzi», attacca Marco Meloni, con parole che rispecchierebbero il pensiero di Enrico Letta.