Stefania Pezzopane, una vita in salita da Onna al Senato

La capolista Pd per la Camera alta del parlamento: "Lotto da sempre contro misoginia e pregiudizi"

L’AQUILA. Una vita in salita. E di corsa. Contro pregiudizi e misoginia. Stefania Pezzopane, 53 anni, una vita per la politica, si racconta tra pubblico e privato. Candidata al Senato come capolista in Abruzzo per il Pd, l’assessore dell’Aquila apre la scatola dei ricordi ma guarda anche al futuro.

Assessore o senatrice?

«Non chiamatemi così. Io sono Stefania. E resterò Stefania, un’aquilana che va a Roma con una missione: ricostruzione».

Storia che inizia a Onna.

«Sì, mio padre è di Onna. Io nasco all’Aquila, a via Castello. La domenica avevo l’abitudine di andare a Onna a giocare con le galline. Molti miei parenti sono lì. Sono molto legata a Onna ed ero lì la mattina del sisma. Onna, per me, è papà Vincenzo, perso a 20 anni».

Com’è stata l’infanzia?

«La mia famiglia d’origine è numerosa. Quattro figli: io la terza, dopo mia sorella e mio fratello più grande, che ho perso qualche anno fa e prima di mio fratello più piccolo. Una famiglia media, con papà che aveva un’impresa edile e mia madre Vilde che lavorava nella segreteria dell’Itis e al Provveditorato. I primi anni ho abitato dentro le mura. A via Castello sono nata, a San Bernardino, dove ho iscritto poi mia figlia, sono andata a scuola. Un legame viscerale col centro storico».

Come si viveva?

«Con molti impegni. La mia famiglia ha fatto grandissimi sacrifici. Ma ovviamente mi sono sempre dovuta difendere parecchio. Primo perché eravamo tanti e ti devi sempre organizzare. Devi imparare a condividere. Lì ho imparato anche la mediazione. E poi mi sono difesa anche a scuola».

Da chi e per cosa?

«In classe, anche per questa mia caratteristica di essere così piccola di statura, ti devi difendere. L’ho saputo fare bene. Poi gli anni del liceo»

Come andò?

«In quegli anni ho conosciuto Fulvio (Angelini, ndr), che è stato mio marito. Lì è nata la nostra storia che è diventata quella della nostra famiglia. Ho cominciato a far politica nel movimento studentesco».

Che anni erano, quelli?

«Tra il ’77 e il ’78, anni di grande mobilitazione. Il movimento pacifista, il movimento delle donne e le contestazioni studentesche. Ero a scuola quando fu ammazzato Moro».

Come reagiste?

«Cercammo una via d’uscita nell’impegno. A quei tempi ero molto timida e mi scrivevo tutto quando parlavo alle riunioni. E mi tremava la voce. Partecipai all’occupazione del Celestino, il teatro di via dei Giardini. Lì formai il gruppo musicale “La Mimosa”: tutte donne. Affrontavamo con musica e testi argomenti importanti: ruolo della donna, violenza sessuale, aborto. Mettevamo insieme la musica di Guccini e De André e i canti di lotta delle mondine. Contemporaneamente cantavo al coro Gran Sasso di Paolo Mantini. E qualcuno di sinistra ironizzava su questa mia doppia militanza. Una più tradizionale legata alle origini della città e l’altra la lotta politica. Io L’aquila bella me’ l’ho cantata molto prima che il terremoto la facesse ricordare a molti».

Perché a sinistra?

«Da subito, ma presi la tessera quando morì Berlinguer. Fu la voglia di cambiare le cose, la passione per i diritti delle donne. Nel ’74, anno del referendum sul divorzio, cominciai ad appassionarmi. L’aspetto dell’emancipazione femminile era sentito solo a sinistra».

Il primo impegno politico?

«La raccolta firme per la legge contro la violenza sessuale».

E a casa che ne pensavano?

«La mia famiglia era di centro. Io ho rotto gli schemi. I miei erano preoccupati di queste mie scelte. Non mi hanno vietato nulla ma nemmeno assecondata. Ho dovuto discutere. E non solo a casa».

Dove altro?

«A scuola. Il prof di latino e greco era Cordeschi. Gli devo molto. Mi ha temprata. Considerava la sinistra un nemico. A ogni sciopero ci interrogava 4-5 volte. Scioperavo e poi studiavo fino alle 6 della mattina. Non potevo darla vinta. Dal Liceo uscii con 56. E il prof l’ho ringraziato perché quelle ritorsioni mi hanno resa forte. Come ho ringraziato i miei per avermi fatto capire che nulla ti è dato ma te lo devi conquistare».

Studio e politica andarono d’accordo?

«Presi Scienze politiche ma l’attrazione per la politica vera era sempre più forte. A 20 anni, perso mio padre, mi posi il problema di dare una mano alla famiglia. Ho fatto diversi lavori, da baby sitter e anche nei ristoranti. Davo ripetizioni di latino e greco. Poi Gabriele Lucci mi propose di lavorare alla Lanterna magica che mi ha dato il mio primo stipendio vero. Ho ancora il cedolino: 120mila lire. Ho lavorato a tre edizioni di “Una città in cinema” che aprì L’Aquila al mondo dei grandi direttori della fotografia tra cui Storaro. Poi il bivio: cultura o politica».

Come andò?

«Il Pci riorganizzava i giovani a livello nazionale. Noi aquilani eravamo visti molto bene a Roma. Andammo in tre: io, Fulvio, segretario dei Giovani comunisti e Giorgio Iraggi. Fu Pietro Folena che mi propose di andare. Esperienza straordinaria. Mi sono occupata di problematiche legate ai diritti. Figura di riferimento: Violante. Con Folena visitai le carceri dei detenuti politici. Tra loro anche Giulio Petrilli che non conoscevo».

Da Roma all’Aquila?

«Il segretario del Pci Caroccia mi chiese di candidarmi alle Comunali. Lasciai a Roma Vendola e Zingaretti e tornai: mi si chiedeva un impegno negli anni della svolta di Occhetto. Mi ero già candidata alle Regionali, nel 1985, ma non passai. Candidatura di servizio. Il partito era così: gestiva i voti come una macchina da guerra. “Prenderai 500 voti, i giovani e le donne, muoviti là”. Presi tre volte tanto. Alle Europee dell’89 fu un’avventura, con la 126 usata».

Di che colore era?

«Avana, la comprai da Caroccia. Non avevo alcuna possibilità di essere eletta ma girai tutto il Sud. Due volte rimasi pure in mezzo alla strada. Quell’anno fu eletta la Marinucci. Presi 36mila voti».

E al Comune?

«Il Pci fece una lista di rottura, Convenzione democratica, c’era Pannella e, con noi comunisti, i socialisti. Il simbolo la Genziana. Fui eletta con 1700 voti, ma la lista perse, diventò sindaco Lombardi che mi toglieva sempre la parola e il segretario fu cacciato. Un Ulivo ante litteram. Nel 1994 crollò tutto: ero consigliere quando fu arrestato il sindaco Placidi. La Baldoni divenne sindaco e Lombardi andò al Senato. Si sciolse il Consiglio, vinse Centi. E io di nuovo eletta feci la presidente dell’assemblea civica. Poi le Regionali, io assessore e fui rieletta nel 2000. Quindi la Provincia. Sei anni stupendi, prima del marzo 2010 che mi brucia ancora».

Che accadde?

«Fu l’anno nero del centrosinistra. Perdemmo ovunque. Dopo il sisma mi concentrai sull’Aquila. Altrove s’erano innescati altri processi. Facevo le liste e notavo defezioni, disimpegno. Tradimenti. Presi all’Aquila il 57%: non bastò».

Mai pensato di mollare?

«Ho brutti ricordi. Ha influito il fatto di essere donna. C’è tanta misoginia, facciamo paura. Tutto quello che per un uomo è normale viene imputato, a noi, come eccesso di ambizione».

Bisogna averne, in politica?

«Ridicolo chi dice di non averne. L’importante è che non sia solo questo. Parecchie volte sono dovuta ripartire da zero. Ho fatto l’assessore ai tempi delle battaglie con Berlusconi, Chiodi, Cicchetti. Ho resistito. E le Primarie mi hanno premiato: 3159 voti. Anche Marini ha accettato».

Ora che succede?

«Entro col Porcellum, ma lo abbiamo ammazzato e cucinato. Giusto così, serviva una legittimazione dal basso. Per me è stata una rivincita. Sono contenta e preoccupata».

Che ne pensa sua figlia?

«”Quindi te ne vai?”, mi ha detto Caterina. Le ho risposto di no. Continuerò a fare sacrifici. Non prendo casa a Roma, tanti amici vogliono ospitarmi. Farò i salti mortali. Già sono un’equilibrista del tempo. Accompagno mia figlia a pallavolo. Ogni sera ripetiamo insieme un po’ di italiano, latino, storia e pedagogia».

E il tempo per un libro?

«Sto leggendo Alda Merini. Niente saggi politici, mi piacciono le storie, anche i gialli».

E L’Aquila che storia è?

«Tragedia greca. Ma c’è l’aspetto della catarsi. E la via d’uscita c’è sempre».

Merito degli uomini o degli dei?

«Degli uomini».

E la fede?

«Sono religiosa, cattolica e cristiana. Non ho paura. Vorrei una Chiesa più distante dai beni materiali. Il vescovo Molinari è stato mio prof di religione. Ci faceva sentire “Dio è morto” e ci faceva dire la nostra. Poi ci siamo scontrati, ai tempi dell’onnipresenza di Berlusconi».

E ora che, forse, lo incontrerà di nuovo cosa gli dirà?

«Te la ricordi L’Aquila? Non ci viene da 3 anni, ne continua a parlare come di un miracolo che non c’è. Da presidente della Provincia ho cercato di essere di lotta e di governo: i cittadini non avrebbero perdonato che un’eccessiva vis polemica potesse penalizzarli. Glielo dirò: te la ricordi L’Aquila?».

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