Trincia: hotel e macerie Vi racconto Rigopiano, la Pompei di montagna
In programmazione la serie di Sky dedicata al disastro con 29 vittime Il viaggio in Senegal per raccontare la storia di Faye: «Era necessario»
PESCARA. «Sembra di camminare in un luogo abbandonato da migliaia di anni, in realtà è appena successo». L’hotel Rigopiano, distrutto dalla forza brutale di una valanga il 18 gennaio 2017, è oggi «la Pompei di montagna». Un’immagine rievocata da Pablo Trincia, autore Sky e voce narrante della docuserie E poi il silenzio – Il disastro di Rigopiano quando, insieme al regista Paolo Negro e alla scrittrice Debora Campanella, si è trovato per la prima volta davanti a ciò che resta dell’hotel ai piedi del Monte Siella. Macerie e polveri, una valanga di distruzione. Ma poi ci sono anche le stanze di quel resort in cui il tempo sembra solo essersi fermato: sono gli ambienti della Spa, con i flaconi di creme e i dischetti di ovatta ancora fermi sugli scaffali. Un disastro, che rimane la valanga più grande d’Europa, ora raccontato nella docuserie Sky Original che, dopo il successo del podcast, arriva in tv da domani. Ieri, la presentazione ufficiale al Teatro Massimo di Pescara a cui hanno preso parte anche i sopravvissuti della tragedia: voci e volti protagonisti di podcast e docuserie.
Pablo Trincia, insieme a Debora Campanella e al resto dello staff avete fatto un grande e importante lavoro. Più volte nel podcast lei ha detto che è stato un lavoro emotivamente pesante. Ma come ha fatto in questo caso a mantenere la lucidità e non farsi prendere troppo dall’emotività della storia? «Quando fai questo lavoro sei come un medico, un soccorritore. È il tuo lavoro, è il tuo mestiere, lo fai sempre con lucidità. Ovviamente ti sale l'ansia, ti sale la rabbia o ti viene l'incazzatura a volte, ma è normale perché siamo tutti degli esseri umani. Ma noi che lo facciamo di mestiere siamo educati a non farci prendere dalle emozioni. Cerchiamo di essere lucidi e raccontare tutto il più possibile, non facendo errori o cercando di essere il più precisi possibile».
Soprattutto negli ultimi episodi del podcast ci sono stati dei forti richiami alla politica durante l’emergenza, a ciò che non è stato fatto e, soprattutto, all'assenza della politica nelle condanne. Tra le tante finalità del vostro lavoro c’era anche quella di accendere una luce su questo punto?«Noi volevamo sicuramente parlare di questo aspetto perché era quello che mancava, non solo secondo noi, ma anche secondo gli avvocati dei parenti delle vittime. Dov'è questa famosa carta valanghe? Perché nessuno risponde di questo? È assurdo. Noi volevamo sottolineare che ci sono delle responsabilità enormi che non sono state prese in considerazione. Puoi decidere di valutare quello che è successo nei giorni immediatamente prima e dopo la valanga, ma c'è tutta una storia prima che non puoi non prendere in considerazione. Visto che in sentenza questo non c'era, abbiamo deciso di raccontarlo noi, di andare a parlare di quello che era rimasto fuori. Ma non come missione: faceva parte della storia ed era un pezzo di storia importante che andava raccontato».
Ha raccontato con delicatezza la vita delle 29 vittime, dando importanza a tutte le loro storie. È arrivato fino in Senegal per raccontare la storia di Dame Faye. «La scorsa estate avevamo scritto i primi sette episodi. Ero al telefono con Debora per fare un brainstorming sull'ottava puntata. Lei mi dice che dovevamo iniziare con la storia di Dame. Ho preso subito un biglietto per il Senegal, sono andato da solo. Quando sono arrivato mi hanno detto di un villaggio che era a tre ore a nord di Dakar. Ho aperto Google Maps e ho visto che c’era un pezzo di strada asfaltata e poi devi andare dentro una boscaglia per 45 minuti. Siamo arrivati distrutti al villaggio: c'erano pochissime case, quattro, cinque baracche e un albero con sotto quattro anziani. Ho chiesto della famiglia Faye. E loro non sapevano minimamente di chi stessi parlando».
E cosa era successo?«Poi mi dicono che ci sono due villaggi con lo stesso nome e io avevo preso quello sbagliato. Sono arrivato lì la notte del giorno seguente: ho incontrato la vedova, la figlia, i parenti di Dame. All’epoca la figlia di Dame aveva 5 anni, ora ne ha 12 e lui l’aveva vista poco perché faceva avanti e indietro una volta l'anno. Il secondo figlio, il più piccolo, Dame non l'ha mai visto perché era nato da poco».
Ma cosa l’ha spinta a partire per il Senegal? «La voglia di raccontare e di non dimenticarsi degli ultimi: gli ultimi non nel senso perché africani, ma gli ultimi perché sono quelli più lontani. I parenti non hanno parlato, nessuno ha mai inquadrato o visto la vedova e quindi per me è stato importante andare fino lì e fare questo piccolo sforzo in più».
Di Rigopiano si è parlato tanto. Sappiamo il passato di Rigopiano, quello che è stato. Sappiamo il presente, quello che è oggi. Ma, invece, quale sarà il futuro di Rigopiano? «Ora la Cassazione può confermare quello che si è detto in appello oppure può annullare e chiedere un nuovo processo. La preoccupazione in quel caso sarebbero i tempi della giustizia: quindi un processo che si allunga all'infinito».
Ma Rigopiano verrà ricordato sempre per la tragedia dell'hotel distrutto oppure per i farindolesi c'è un'altra possibilità? «No, secondo me verrà sempre ricordato per quell'hotel distrutto perché sono quei casi più grandi dei luoghi dove avvengono, un po' come Avetrana. Quindi sì, verrà ricordato sempre per questo. È inevitabile».
Un paesino che viveva per quell’hotel ora si porta una condanna, sarà ricordato per una tragedia. «Non credo che ci sia molto da fare onestamente, Farindola era legata a Rigopiano. Rigopiano era quell'hotel con le persone che vi lavoravano dentro, che venivano tra l'altro da zone diverse dell'Italia. Ora è un posto dove non abita nessuno. Una tragedia così te la porti dietro e te la tieni, nel senso che non puoi fare diversamente. C'è anche quello, non si cancella. È stata una cosa troppo grande, enorme».
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