Balugani: io e il sud tra calcio e passione
L'allenatore in vacanza a Francavilla: «Una vita in serie C, senza procuratori e sempre a testa alta»
FRANCAVILLA. Stesso ombrellone, stesso lido, stessa città. Da anni, pardon decenni, Gianni Balugani trascorre le vacanze estive a Francavilla. Lui, modenese doc, è diventato un cittadino del sud con quartier generale in Abruzzo. Quasi mille panchine in serie C, dalla metà degli anni Settanta fino al 2010. Un gentiluomo del calcio. Tutti gli riconoscono valori umani persi nel tempo. Un allenatore d’altri tempi. Grintoso e tenace, pratico ed essenziale. Da Modena a Lanciano, poi una vita spesa nel meridione. Un interprete di un calcio che non c’è più.
Balugani, in che cosa è diverso il calcio di oggi da quello degli anni Ottanta?
«In primis nell’aspetto umano. Che prima era centrale e ora è ai margini rispetto a quelli economici. E poi il livello tecnico: molti di quei giocatori che “abitano” oggi in serie C all’epoca avrebbe fatto panchina al massimo».
Si guadagnava più nello scorso secolo oppure oggi?
«Ai livelli di serie C forse più ai miei tempi. Anche se i soldi non sono mai stati una priorità per me. Certo, mi facevo pagare, ma contava il rapporto umano».
Oggi come allora la terza serie è zeppa di problemi.
«Per carità, ma ricordo che a Civitanova retrocedemmo tra gli applausi della nostra gente. E a Macerata finimmo la stagione con l’anticipo del primo stipendio. Il contesto era diverso, più genuino e umano. Una stretta di mano aveva un valore, oggi non più».
I procuratori come comune denominatore.
«Ai miei tempi Moggi non dettava legge solo in serie A. Aveva le sue propagazioni anche in C. Io, però, non mi sono mai legato a un procuratore. Mai. Dipendevo esclusivamente dal mio lavoro, senza dover ringraziare nessuno, se non i miei giocatori o le mie società».
Oggi invece?
«Vedo allenatori che fanno una mezza stagione positiva e diventano fenomeni. Prima dovevi dimostrare, c’era maggiore meritocrazia. Oggi ho la sensazione che ci sia gente in panchina che non si sbatte più di tanto, forse perché sa che l’anno successivo qualcuno gli troverà una squadra».
Oggi gli allenatori vanno in panchina in giacca e cravatta.
«Un allenatore è un personaggio pubblico e come tale deve dare l’esempio anche con i comportamenti. Io ho cercato di essere, per quanto potevo, prima un padre per i ragazzi; poi, un allenatore. Senza mai fare promesse che non potevo mantenere. Onestà prima di tutto».
Oggi più che di allenatore si parla di staff tecnico.
«Mi si drizzano i capelli al pensiero. Oggi, anche in C, esistono gli staff! Ai miei tempi tutt’al più potevi avere un secondo. E dovevi pensare a tutto: ai portieri, alla tattica, alla tecnica, alla preparazione atletica, alle amichevoli e alle trasferte. Mica come oggi…».
Ai suoi tempi chi la metteva in difficoltà tra i suoi colleghi?
«Adriano Cadregari in primis. Poi Zeman».
Erano i tempi della zona contro la marcatura a uomo.
«Zeman è stato un antesignano del gioco a zona. Ma con il mio Monopoli l’ho battuto quando lui era a Foggia. E da quel Monopoli poi prese il compianto List e il centravanti Meluso».
Il campo più caldo del sud?
«Lo Zaccheria di Foggia. Lì il rigorino ci scappa sempre per la pressione del pubblico».
Il rapporto con i presidenti?
«Quello con cui sono andato più d’accordo è il compianto Emidio Luciani, a Francavilla. Poteva apparire burbero all’esterno, ma sapeva pesare le persone come pochi. Con lui avevo un rapporto senza filtri; ci vedevamo il martedì e il venerdì. C’erano anche Rodomonti e Di Santo. Una società snella ed efficiente. Ma ricordo con affetto anche i presidenti avuti a Lanciano: De Gregorio, De Biase, Ucci e Mauri, gente di un certo spessore».
Con chi ha litigato invece?
«Litigato è una parola grossa. Ma andai via quando Bellomo, a Monopoli, non volle riconoscere un premio ai ragazzi».
Lei modenese mai profeta in patria.
«Mi conoscevano e mi conoscono al sud. E’ lì che ho lavorato. E poi senza procuratori…».
Rapporti con i ds?
«Non mi sono legato a nessuno. Ma a Monopoli ho avuto la fortuna di lavorare con Giovanni Manzari che qualche anno dopo mi chiamò a Casarano. Così come ho avuto il piacere di lavorare più volte con Carmine Rodomonti. Parliamo di persone speciali in un contesto diverso da quello attuale».
A Sassuolo è stato a fine carriera senza incrociare Squinzi…
«L’ultimo anno che feci al Sassuolo lui era sponsor. Poi, ha preso la società. Ci siamo solo sfiorati».
Come è arrivato da Modena a Lanciano?
«Era il 1972, giocavo stopper nel Modena, in serie B. In occasione della trasferta a Roma contro la Lazio, partimmo prima. Facemmo prima un’amichevole a Pescara contro i biancazzurri di Seghedoni e poi a Lanciano. Lì mi vide il presidente Petruzzi che l’estate successiva mi volle a Lanciano».
Nel frattempo…
«A Roma contro la Lazio di Chinaglia giocai l’ultima gara con la maglia del Modena, era la 19ª stagionale. E alla 20ª scattava un premio, ma non mi fecero più giocare…».
E così dall’Olimpico a Rosello.
«Sì, a Roma marcai Giorgio Chinaglia e poi, dopo qualche mese, mi ritrovai a Rosello, in ritiro con il Lanciano. Un’evoluzione abbastanza traumatica: in B andavamo al campo e trovavamo tutto pronto, in serie D dovevi fare da solo. Ricordo il mio primo ingaggio, sei milioni di vecchie lire».
A Lanciano è stato per diversi anni.
«Otto, di cui sei da calciatore e due da allenatore. Anni bellissimi. Il secondo anno di C2 a Lanciano il Francavilla vinse il campionato e Emidio Luciani mi chiamò sulla panchina giallorossa. Ci salvammo bene. Poi, andai a Civitanova. E l’anno successivo, nel 1982, Carmine Rodomonti, che avevo conosciuto a Francavilla, mi portò a Teramo. Non andò bene. Dovevamo vincere il campionato, ma non avevamo la squadra per riuscirci. Non c’era un gruppo solido».
Ancora centro-sud.
«Sì, Fano, Macerata e Monopoli».
E di nuovo Francavilla.
«Era il 1987. Ero da reduce da un’ottima annata con il Monopoli, ci qualificammo per la coppa Italia di serie A e B. Avevamo pattuito un premio che il presidente Bellomo non volle riconoscere ai ragazzi. E così me ne andai. Feci il viaggio di ritorno a casa e mi fermai a pranzo a Francavilla. Al ristorante c’era anche Rodomonti. Parlammo a lungo e ci accordammo per tornare sulla panchina giallorossa. E feci tre anni in C1».
Poi, Casarano.
«Il primo anno arrivammo terzi in C1, ci “rubarono” la promozione in B. Ce l’ho ancora sullo stomaco quel campionato. Facemmo benissimo eppure non ricevetti nemmeno un’offerta. Restai a Casarano, ma dovetti abbassarmi l’ingaggio di 10 milioni per problemi di budget».
Ed eccoci a Chieti.
«Penso sia stato Giovanni Pagliari (ex centravanti neroverde, ndr) a fare il mio nome al dg Garzelli e al compianto patron Mancaniello. Il fratello Dino, infatti, era stato il mio vice a Casarano. A Chieti conquistammo una salvezza fantastica. Eravamo pieni di infortuni, problemi a non finire. A un certo punto della stagione ci davano per spacciati, eppure ci salvammo all’ultima giornata a Palermo. Era il 1993».
Poi, Ischia e ancora Chieti.
«Era l’anno in cui un allenatore poteva allenare due squadre nella stessa stagione, a patto che il rapporto con la prima si fosse esaurito prima della fine del girone d’andata. E quell’anno, 1994-95, iniziai a Ischia e finii a Chieti. Terminò male perché perdemmo i play out proprio contro l’Ischia, ma facemmo una rimonta sensazionale. Un girone di ritorno alla grande».
L’esperienza più bella?
«Una delle squadre che mi ha dato più soddisfazioni è stata il Lanciano, anche perché il primo amore non si scorda mai. Ma come dimenticare il rapporto con il Francavilla e il presidente Luciani? O Chieti con quella salvezza strappata contro tutto e tutti».
A Teramo però..
«Forse, fu anche colpa mia. Ricordo una tifoseria calda e esigente, purtroppo non riuscimmo a soddisfarla».
Il miglior giocatore che ha allenato?
«A livello tecnico Augusto Gabriele, a Francavilla. Per quello che mi hanno dato in mezzo al campo tanti altri: Piemontese, ad esempio. E poi Ametrano, Mazzaferro, Toti, Di Baia e Palmisano».
Il top 11 dei giocatori allenati?
«No, farei un torto a tanti ragazzi. Purtroppo ogni tanto ne perdo uno per strada. La morte recente di Leonardis è stata un colpo al cuore per me».
In chi si rivede?
«Senza fare paragoni arditi, ma dico Carlo Ancelotti. Non perché vince, ma perché è sempre se stesso».
Allenatore-poeta, vero?
«E’ vero, mi piaceva scrivere, sin dai tempi delle superiori. Mi mettevo a fantasticare, amori impossibili e sogni proibiti».
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