CALCIO / FRATELLI ALLENATORI
Giampaolo: "Io, Marco e le lezioni della strada"
Federico: "Ogni tanto rivedo in tv i miei gol a Pescara. Davvero bellissimi"
PESCARA. Un tempo il Giampaolo più conosciuto era lui, Federico, idolo dell’Adriatico-Cornacchia e goleador. Una carriera spesa sui campi di serie A e B e chiusa a 40 anni tra Sorrento e Noicattaro, in C. Oggi, invece, è il fratello del più famoso Marco, allenatore della Sampdoria in serie A. Anche Federico, però, siede in panchina, quella dell’Avezzano, in serie D. E l’ultima stagione è stata più che positiva, terminata con il terzo posto in classifica e la conferma per la prossima stagione. Il tecnico di Giulianova è tornato a Bari, dove si è stabilito con la famiglia, la signora Paola e i figli Giorgio, 22 anni, e Benedetta, 21. Lì trascorrerà le vacanze estive dopo il primo vero anno da allenatore; lì si racconta a 360° tra passato, presente e futuro.
Giampaolo, come ha fatto a “resistere” così a lungo al vulcanico presidente Paris?
«Ad Avezzano sono stato e sto bene. Il presidente è passionale, quindi a volte tifoso, ma è stato un valore aggiunto nel nostro bel campionato in cui ci siamo tolti grandi soddisfazioni grazie all’unione d’intenti di tutte le componenti».
Come nasce Federico Giampaolo allenatore?
«Io ho smesso di giocare a 40 anni, prima a Sorrento e poi a Noicattaro. Ho fatto due anni alla Primavera del Bari grazie a Guido Angelozzi; poi, un anno a Pescara con la Primavera. E da lì ho fatto il secondo ad Andria con Luca D’Angelo; una parentesi ad Aosta, in serie D, dove tutto si poteva fare bene tranne che il calcio; e poi l’under 17 a Bari fino alla chiamata del presidente Gianni Paris, il 14 agosto scorso. Sono partito con il settore giovanile, dal basso: è fondamentale per chi vuole fare l’allenatore».
In che cosa lei è diverso da Marco, suo fratello, che guida la Sampdoria?
«Non lo so, ma Marco è bravo, lo dicono tutti ed è vero. È molto preparato. Ovviamente, ho preso spunto anche da lui, sarei un folle se non attingessi ai consigli di mio fratello. Ma ognuno ha un suo metodo di allenamento, ognuno è se stesso. Anche perché il quotidiano lo affronti in prima persona, devi essere te stesso».
Si aspettava che Marco potesse arrivare in serie A?
«Sì, durante la carriera ha avuto diverse metamorfosi e cambiamenti. È cresciuto, fa un calcio che mi piace, propositivo».
Che cosa è rimasto di quel giocatore che fece sognare Pescara negli anni Novanta e Duemila?
«Ogni tanto riguardo i miei gol in tv. Non per presunzione, ma la maggior parte erano davvero belli. Se ne vedono pochi nel calcio di oggi, soprattutto a livello di preparazione».
I più belli?
«A Salerno, a Palermo. Parti da centrocampo palla al piede, salti gli avversari e vai a fare gol. Bello davvero!».
Da calciatore ad allenatore.
«Il calciatore gioca, scarica la tensione subito e il martedì riparte. L’allenatore si porta dietro l’adrenalina per tutta la settimana fino ad arrivare alla domenica. Il giocatore pensa per sé, l’allenatore pensa per tutti».
Federico Giampaolo da giocatore era piuttosto mite.
«Quelli che parlano di più sono quelli meno dotati tecnicamente. Guarda i campioni, mai si permettono di rimproverare compagni o avversari».
Lei si è formato nella Juve, nel settore giovanile.
«La sua forza è la società. Ti fa sentire giocatore al 100%, ti inculca la mentalità vincente, la professionalità. Si avverte un’atmosfera diversa».
Il suo anno migliore?
«A Pescara, in serie B, con Delio Rossi. Dal 1994 al 1997 ho segnato 35 gol. Ma anche a Salerno in A, a Genova e a Verona ho fatto bene. Ma a Pescara mi sono proprio divertito».
Quali amici conserva del mondo del calcio?
«Ottavio Palladini, Dario Di Giannatale e Emanuele Calaiò sono gli amici che sento di più».
Ha avuto dal calcio meno di quanto ha dato?
«Ho avuto il giusto. Il pallone ti dà per quello che effettivamente meriti. L’unica cosa è che la fortuna può darti uno slancio in più».
Ha perso qualche treno importante?.
«A Bari, nel 1991-1992, se fossimo andati in serie A si potevano aprire orizzonti migliori. Lo stesso dicasi a Pescara nella stagione 1996-97 con Delio Rossi».
Giampaolo calcisticamente nasce come trequartista.
«Un numero 10, poi mi sono spostato sulla sinistra, a piedi invertiti, mi sentivo di poter dare molto: facevo gol e assist».
In campo le capitava mai di litigare?
«Si dicono sciocchezze in mezzo al campo. Ho sempre cercato di fare il mio, senza andare dietro alle chiacchiere. Nemmeno le stavo a sentire. Prendevo le botte, mi rialzavo e non dicevo niente».
L’allenatore che le ha dato di più?
«Ferruccio Mazzola mi ha dato tanto a La Spezia quando ero un ragazzino. Poi, Simonelli, Galeone, Oddo, Delio Rossi, Pioli e Reja. Ho avuto tanti bravi allenatori».
I ragazzi oggi e i ragazzi negli anni Ottanta.
«Non noto grosse differenze, fermo restando che ci si evolve con Internet. Io sono cresciuto a pane e pallone. Oggi nelle scuole calcio si fanno sei ore a settimana di addestramento, io invece sei ore le facevo in un giorno a giocare per strada. Magari con gente più grande e con porte allestite con un po’ di ingegno. La strada insegna, lì non puoi mentire. Lì vengono fuori le qualità, la sensibilità. La strada è una scuola completa».
Lei è stato assistito da Moggi.
«Sì, fino a quando avevo 35 anni. Poi, le strade si sono separate. Non ho procuratori, sono passati otto anni prima che potessi avere una prima squadra mia».
@roccocoletti1. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
Giampaolo, come ha fatto a “resistere” così a lungo al vulcanico presidente Paris?
«Ad Avezzano sono stato e sto bene. Il presidente è passionale, quindi a volte tifoso, ma è stato un valore aggiunto nel nostro bel campionato in cui ci siamo tolti grandi soddisfazioni grazie all’unione d’intenti di tutte le componenti».
Come nasce Federico Giampaolo allenatore?
«Io ho smesso di giocare a 40 anni, prima a Sorrento e poi a Noicattaro. Ho fatto due anni alla Primavera del Bari grazie a Guido Angelozzi; poi, un anno a Pescara con la Primavera. E da lì ho fatto il secondo ad Andria con Luca D’Angelo; una parentesi ad Aosta, in serie D, dove tutto si poteva fare bene tranne che il calcio; e poi l’under 17 a Bari fino alla chiamata del presidente Gianni Paris, il 14 agosto scorso. Sono partito con il settore giovanile, dal basso: è fondamentale per chi vuole fare l’allenatore».
In che cosa lei è diverso da Marco, suo fratello, che guida la Sampdoria?
«Non lo so, ma Marco è bravo, lo dicono tutti ed è vero. È molto preparato. Ovviamente, ho preso spunto anche da lui, sarei un folle se non attingessi ai consigli di mio fratello. Ma ognuno ha un suo metodo di allenamento, ognuno è se stesso. Anche perché il quotidiano lo affronti in prima persona, devi essere te stesso».
Si aspettava che Marco potesse arrivare in serie A?
«Sì, durante la carriera ha avuto diverse metamorfosi e cambiamenti. È cresciuto, fa un calcio che mi piace, propositivo».
Che cosa è rimasto di quel giocatore che fece sognare Pescara negli anni Novanta e Duemila?
«Ogni tanto riguardo i miei gol in tv. Non per presunzione, ma la maggior parte erano davvero belli. Se ne vedono pochi nel calcio di oggi, soprattutto a livello di preparazione».
I più belli?
«A Salerno, a Palermo. Parti da centrocampo palla al piede, salti gli avversari e vai a fare gol. Bello davvero!».
Da calciatore ad allenatore.
«Il calciatore gioca, scarica la tensione subito e il martedì riparte. L’allenatore si porta dietro l’adrenalina per tutta la settimana fino ad arrivare alla domenica. Il giocatore pensa per sé, l’allenatore pensa per tutti».
Federico Giampaolo da giocatore era piuttosto mite.
«Quelli che parlano di più sono quelli meno dotati tecnicamente. Guarda i campioni, mai si permettono di rimproverare compagni o avversari».
Lei si è formato nella Juve, nel settore giovanile.
«La sua forza è la società. Ti fa sentire giocatore al 100%, ti inculca la mentalità vincente, la professionalità. Si avverte un’atmosfera diversa».
Il suo anno migliore?
«A Pescara, in serie B, con Delio Rossi. Dal 1994 al 1997 ho segnato 35 gol. Ma anche a Salerno in A, a Genova e a Verona ho fatto bene. Ma a Pescara mi sono proprio divertito».
Quali amici conserva del mondo del calcio?
«Ottavio Palladini, Dario Di Giannatale e Emanuele Calaiò sono gli amici che sento di più».
Ha avuto dal calcio meno di quanto ha dato?
«Ho avuto il giusto. Il pallone ti dà per quello che effettivamente meriti. L’unica cosa è che la fortuna può darti uno slancio in più».
Ha perso qualche treno importante?.
«A Bari, nel 1991-1992, se fossimo andati in serie A si potevano aprire orizzonti migliori. Lo stesso dicasi a Pescara nella stagione 1996-97 con Delio Rossi».
Giampaolo calcisticamente nasce come trequartista.
«Un numero 10, poi mi sono spostato sulla sinistra, a piedi invertiti, mi sentivo di poter dare molto: facevo gol e assist».
In campo le capitava mai di litigare?
«Si dicono sciocchezze in mezzo al campo. Ho sempre cercato di fare il mio, senza andare dietro alle chiacchiere. Nemmeno le stavo a sentire. Prendevo le botte, mi rialzavo e non dicevo niente».
L’allenatore che le ha dato di più?
«Ferruccio Mazzola mi ha dato tanto a La Spezia quando ero un ragazzino. Poi, Simonelli, Galeone, Oddo, Delio Rossi, Pioli e Reja. Ho avuto tanti bravi allenatori».
I ragazzi oggi e i ragazzi negli anni Ottanta.
«Non noto grosse differenze, fermo restando che ci si evolve con Internet. Io sono cresciuto a pane e pallone. Oggi nelle scuole calcio si fanno sei ore a settimana di addestramento, io invece sei ore le facevo in un giorno a giocare per strada. Magari con gente più grande e con porte allestite con un po’ di ingegno. La strada insegna, lì non puoi mentire. Lì vengono fuori le qualità, la sensibilità. La strada è una scuola completa».
Lei è stato assistito da Moggi.
«Sì, fino a quando avevo 35 anni. Poi, le strade si sono separate. Non ho procuratori, sono passati otto anni prima che potessi avere una prima squadra mia».
@roccocoletti1. ©RIPRODUZIONE RISERVATA