Un Pescara da sogno: Piloni, Motta, Mosti...
Il 3 luglio 1977 lo spareggio di Bologna segnò l’ingresso nell’Olimpo del calcio
Fu come dire: ci siamo anche noi. Trent’anni fa - domani ricorrerà l’evento - l’Abruzzo intero emerse dalle acque limacciose del calcio minore e conquistò un posto in serie A, dopo due spareggi mitici. Le vele spiegate del sorprendente Pescara, la poderosa spinta della regione “forte e gentile”, l’entusiamo irrefrenabile, le trasferte di massa. L’impossibile divenne possibile. Una squadra, una regione. Il Pescara, l’Abruzzo. L’idillio durò a lungo e suscitò simpatia in giro per l’Italia.
La promozione del Pescara nella massima serie, che allora era a 16 squadre con sole tre promozioni dalla B, fu un evento talmente sorprendente da scatenare anche commenti retorici sul tipo “è nata una stella”. Il Cagliari, certo di avere un diritto acquisito alla promozione in quanto figlio legittimo di “GiggiRiva”, ci mise due anni a riprendersi dal flop degli spareggi. La formula venne criticata a lungo sull’Isola. Non a Pescara e Bergamo... Si verificò che, al termine dell’estenuante galoppata dei cadetti, il Vicenza di Paolo Rossi arrivò primo, giusto un filino davanti a Pescara, Atalanta e Cagliari. Regolamento alla mano, il Vicenza fu subito promosso, mentre le tre seconde classificate si trovarono costrette a spareggiare perché c’erano solo due posti a disposizione.
Pescara e Cagliari, a Terni, inaugurarono la serie: 0-0. Poi, l’Atalanta sconfisse 2-1 gli isolani. Nel terzo confronto, a Bologna, il Pescara e l’Atalanta quasi mimarono la partita, condizionati dall’opportunità di essere promossi senza colpo ferire. Vennero registrati solo qualche acuto dei biancazzurri e l’espulsione dell’atalantino Tavola. Finì in pareggio (0-0), come da pronostico, e le due squadre raggiunsero il Vicenza.
A Bergamo, dove la serie A era tutt’altro che una novità, fecero una bella festa; a Pescara e in Abruzzo, da sempre periferia, si scatenò il finimondo. I pescaresi, come gli altri abruzzesi, si innamorarono piano piano di una squadra messa su senza squilli di tromba, partita in surplace, ma capace di perentorie accelerazioni. Calcio d’autore, quello di Giancarlo Cadè, un maestro il cui talento venne solo in parte ripagato dagli allori professionali. Ne avrebbe meritati di più. Ma quel calcio, più di quello odierno, era un circolo quasi esclusivo, con troppi posti riservati a tempo indeterminato.
Helenio Herrera, il Mago dell’Inter, in un’intervista, disse: «Anni fa mi è capitato di essere sconfitto da un tale Cadè, sapete dirmi chi allena ora?». L’uomo di Bergamo era a Pescara, in Abruzzo, a lavorare sodo e senza roboanti dichiarazioni. Insegnò il raggiungimento dei risultati attraverso il bel gioco. Lo stadio Adriatico aveva un solo anello ai “distinti”, dove si accomodavano anche i giornalisti, e alle “curve”. L’ampliamento venne realizzato dopo la promozione. A fine campionato, il cassiere quasi non riuscì a credere ai suoi occhi: incassi per un miliardo di lire.
E pensare che ci vollero 274 minuti di campionato per vedere il primo gol biancazzurro. Lo firmò capitan Zucchini, al 4’ del primo tempo, contro l’Ascoli. Dopo il pareggio di Zandoli, ci fu un calcio di rigore e Nobili lo realizzò. Non si parla di una partita qualsiasi nè di uomini tra i tanti. L’affermazione sull’Ascoli fu la prima di una serie infinita e la coppia Vincenzo Zucchini-Bruno Nobili, di lì a poco, entrò nella mitologia della tifoseria biancazzurra.
Mitico era e rimane anche il presidente Armando Caldora, self made man del campo delle costruzioni, famoso perché gli bastava una stretta di mano per sancire affari milionari. Guai, però, a pensare a un Pescara di magnifici solisti. Magnifica era l’orchestra. E a dirigerla c’era Vincenzo Marinelli. Fu la promozione di tutti. Anche dell’entusiasta dottor Mario Tocco e del massaggiatore Italo Rapino.
Oggi è giusto ricordare chi, tra i protagonisti di quelle giornate leggendarie, con c’è più: il già citato Caldora, il vice presidente Taraborrelli, il talentuoso Masoni, l’estroverso Santucci, il promettente portiere Giacomi, avvelenato dalle esalazioni di una stufetta a gas mentre dormiva. Pescara si fermò per i suoi funerali. Piloni, Motta, Mosti...
La poesia fu imparata a memoria da tutti i calciofili abruzzesi. Ci vollero dieci anni prima che ve venisse vergata una altrettanto bella: Gatta, Benini, Camplone... I cavalieri di Cadè fecero un’impresa impensabile. Le difficoltà iniziali, dato gli altisonanti nomi degli avversari, sono da capire: Braida, ora manager del Milan, furoreggiava nel Monza; Rossi e Altobelli, di lì a poco star del Mondiale di Spagna, guidavano Vicenza e Brescia; e a Cagliari c’era un certo Pietro Paolo Virdis, destinato a fare benino nella Juve e benissimo nel Milan.
Una promozione fiabesca non può prescindere da partite straordinarie. Tra le tante, due fecero storia: le vittorie a Vicenza e Ferrara. Il confronto del Romeo Menti venne deciso da Giorgio Repetto, centopolmoni del centrocampo che in biancazzurro vinse un altro campionato di B e uno di C1. L’assist glielo servì Marco Masoni. A Ferrara, invece, i biancazzurri passarono d’autorità: 1, 2, 3, 4 gol, prima di un comprensibile calo di tensione che permise ai locali di segnare due volte. Era l’ultima di campionato e la vittoria non poteva essere fallita.
Spettacolo e gol. Ma senza un vero bomber. Prunecchi e La Rosa non erano certo concorrenti accreditati dei big della categoria. E il giovane Di Michele, pescarese cresciuto nel Giulianova, aveva la scorza ancora acerba. Le geometrie di Cadè portarono al tiro anche chi fino a quella stagione non aveva mai preso in considerazione la possibilità di segnare. Giuliano Andreuzza, stopper vecchia scuola, fece centro contro Samb e Rimini.
Il Pescara che conquistò la prima promozione in serie A potè contare su un centrocampo di assoluto spessore: Zucchini forza e carisma, Nobili eleganza e genio, Orazi classe e imprevedibilità, Repetto corsa e disciplina. Sopra le righe andarono in molti. Innanzitutto, il poderoso portiere Piloni, ansioso di dimostrare che la Juventus aveva sbagliato a non dargli fiducia. E, poi, Galbiati, compassato centrocampista trasformato in un moderno libero. Lasciò Pescara due anni dopo, per raccogliere soddisfazioni nella Fiorentina e nel Torino.
La gara di regolarità, invece, la vinse Eraldo Mancin, un reduce del Cagliari scudettato nel 1970: su con gli anni, ma saggio e virtuoso, mise le pezze quando fu necessario. Gregario, certo. Ma gregario di lusso. Dopo lo spareggio di Bologna, venne varato un concorso per premiare il palazzo con l’addobbo più bello. Pescara, civettuola come non mai, si vestì di bianco e di azzurro.
La promozione del Pescara nella massima serie, che allora era a 16 squadre con sole tre promozioni dalla B, fu un evento talmente sorprendente da scatenare anche commenti retorici sul tipo “è nata una stella”. Il Cagliari, certo di avere un diritto acquisito alla promozione in quanto figlio legittimo di “GiggiRiva”, ci mise due anni a riprendersi dal flop degli spareggi. La formula venne criticata a lungo sull’Isola. Non a Pescara e Bergamo... Si verificò che, al termine dell’estenuante galoppata dei cadetti, il Vicenza di Paolo Rossi arrivò primo, giusto un filino davanti a Pescara, Atalanta e Cagliari. Regolamento alla mano, il Vicenza fu subito promosso, mentre le tre seconde classificate si trovarono costrette a spareggiare perché c’erano solo due posti a disposizione.
Pescara e Cagliari, a Terni, inaugurarono la serie: 0-0. Poi, l’Atalanta sconfisse 2-1 gli isolani. Nel terzo confronto, a Bologna, il Pescara e l’Atalanta quasi mimarono la partita, condizionati dall’opportunità di essere promossi senza colpo ferire. Vennero registrati solo qualche acuto dei biancazzurri e l’espulsione dell’atalantino Tavola. Finì in pareggio (0-0), come da pronostico, e le due squadre raggiunsero il Vicenza.
A Bergamo, dove la serie A era tutt’altro che una novità, fecero una bella festa; a Pescara e in Abruzzo, da sempre periferia, si scatenò il finimondo. I pescaresi, come gli altri abruzzesi, si innamorarono piano piano di una squadra messa su senza squilli di tromba, partita in surplace, ma capace di perentorie accelerazioni. Calcio d’autore, quello di Giancarlo Cadè, un maestro il cui talento venne solo in parte ripagato dagli allori professionali. Ne avrebbe meritati di più. Ma quel calcio, più di quello odierno, era un circolo quasi esclusivo, con troppi posti riservati a tempo indeterminato.
Helenio Herrera, il Mago dell’Inter, in un’intervista, disse: «Anni fa mi è capitato di essere sconfitto da un tale Cadè, sapete dirmi chi allena ora?». L’uomo di Bergamo era a Pescara, in Abruzzo, a lavorare sodo e senza roboanti dichiarazioni. Insegnò il raggiungimento dei risultati attraverso il bel gioco. Lo stadio Adriatico aveva un solo anello ai “distinti”, dove si accomodavano anche i giornalisti, e alle “curve”. L’ampliamento venne realizzato dopo la promozione. A fine campionato, il cassiere quasi non riuscì a credere ai suoi occhi: incassi per un miliardo di lire.
E pensare che ci vollero 274 minuti di campionato per vedere il primo gol biancazzurro. Lo firmò capitan Zucchini, al 4’ del primo tempo, contro l’Ascoli. Dopo il pareggio di Zandoli, ci fu un calcio di rigore e Nobili lo realizzò. Non si parla di una partita qualsiasi nè di uomini tra i tanti. L’affermazione sull’Ascoli fu la prima di una serie infinita e la coppia Vincenzo Zucchini-Bruno Nobili, di lì a poco, entrò nella mitologia della tifoseria biancazzurra.
Mitico era e rimane anche il presidente Armando Caldora, self made man del campo delle costruzioni, famoso perché gli bastava una stretta di mano per sancire affari milionari. Guai, però, a pensare a un Pescara di magnifici solisti. Magnifica era l’orchestra. E a dirigerla c’era Vincenzo Marinelli. Fu la promozione di tutti. Anche dell’entusiasta dottor Mario Tocco e del massaggiatore Italo Rapino.
Oggi è giusto ricordare chi, tra i protagonisti di quelle giornate leggendarie, con c’è più: il già citato Caldora, il vice presidente Taraborrelli, il talentuoso Masoni, l’estroverso Santucci, il promettente portiere Giacomi, avvelenato dalle esalazioni di una stufetta a gas mentre dormiva. Pescara si fermò per i suoi funerali. Piloni, Motta, Mosti...
La poesia fu imparata a memoria da tutti i calciofili abruzzesi. Ci vollero dieci anni prima che ve venisse vergata una altrettanto bella: Gatta, Benini, Camplone... I cavalieri di Cadè fecero un’impresa impensabile. Le difficoltà iniziali, dato gli altisonanti nomi degli avversari, sono da capire: Braida, ora manager del Milan, furoreggiava nel Monza; Rossi e Altobelli, di lì a poco star del Mondiale di Spagna, guidavano Vicenza e Brescia; e a Cagliari c’era un certo Pietro Paolo Virdis, destinato a fare benino nella Juve e benissimo nel Milan.
Una promozione fiabesca non può prescindere da partite straordinarie. Tra le tante, due fecero storia: le vittorie a Vicenza e Ferrara. Il confronto del Romeo Menti venne deciso da Giorgio Repetto, centopolmoni del centrocampo che in biancazzurro vinse un altro campionato di B e uno di C1. L’assist glielo servì Marco Masoni. A Ferrara, invece, i biancazzurri passarono d’autorità: 1, 2, 3, 4 gol, prima di un comprensibile calo di tensione che permise ai locali di segnare due volte. Era l’ultima di campionato e la vittoria non poteva essere fallita.
Spettacolo e gol. Ma senza un vero bomber. Prunecchi e La Rosa non erano certo concorrenti accreditati dei big della categoria. E il giovane Di Michele, pescarese cresciuto nel Giulianova, aveva la scorza ancora acerba. Le geometrie di Cadè portarono al tiro anche chi fino a quella stagione non aveva mai preso in considerazione la possibilità di segnare. Giuliano Andreuzza, stopper vecchia scuola, fece centro contro Samb e Rimini.
Il Pescara che conquistò la prima promozione in serie A potè contare su un centrocampo di assoluto spessore: Zucchini forza e carisma, Nobili eleganza e genio, Orazi classe e imprevedibilità, Repetto corsa e disciplina. Sopra le righe andarono in molti. Innanzitutto, il poderoso portiere Piloni, ansioso di dimostrare che la Juventus aveva sbagliato a non dargli fiducia. E, poi, Galbiati, compassato centrocampista trasformato in un moderno libero. Lasciò Pescara due anni dopo, per raccogliere soddisfazioni nella Fiorentina e nel Torino.
La gara di regolarità, invece, la vinse Eraldo Mancin, un reduce del Cagliari scudettato nel 1970: su con gli anni, ma saggio e virtuoso, mise le pezze quando fu necessario. Gregario, certo. Ma gregario di lusso. Dopo lo spareggio di Bologna, venne varato un concorso per premiare il palazzo con l’addobbo più bello. Pescara, civettuola come non mai, si vestì di bianco e di azzurro.