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Donna segregata in casa, due anni all’ex

Condannato per maltrattamenti, in aula il drammatico racconto della vittima: potevo uscire solo per lavorare

TERAMO. Non è vero che tutto passa. Perchè quando in un’aula di tribunale racconti l’inferno in casa capisci che la paura ti resta cucita addosso come un vestito vecchio. Anche dopo una sentenza di condanna per maltrattamenti dell’uomo che per anni ti ha fatto uscire di casa solo per lavorare, ti ha picchiato il giorno dopo un intervento chirurgico, impedito di vedere i tuoi familiari, terrorizzato con minacce di morte. E’ con una condanna a due anni (così come richiesto dal pm d’udienza Stefania Mangia) e il pagamento di una provvisionale di 10mila euro che il giudice monocratico Roberto Veneziano ha chiuso in primo grado il processo a carico di un incensurato cinquantenne teramano (di cui non citiamo le generalità per tutelare la privacy dei minori coinvolti) accusato di vessazioni psicologiche e fisiche nei confronti della ex convivente e dei due figli. Ed è stata propria la ragazzina a confermare in aula le parole della madre. «Si è vero», ha raccontato, «papà picchiava la mamma davanti a noi, la maltrattava e insultava con parolacce di ogni genere. Erano botte anche per noi se non facevano i compiti entro determinati orari».

La storia finita in tribunale potrebbe essere quella di tante donne. Perchè i casi isolati non esistono e il primo pugno, schiaffo o spintone ne trascina dietro dieci, cento. «Non so quando è iniziato», ha raccontato la donna in aula, «so che non ricordo un momento in cui non ho avuto paura».

Paura perchè poteva uscire solo per andare a lavorare e ogni minuto di ritardo erano botte, paura perchè doveva pulire casa solo con i prodotti che l’uomo comprava, paura perchè nell’appartamento non c’era più spazio per niente visto che l’uomo aveva riempito le stanze di cianfrusaglie e dovevano dormire tutti nella stessa camera da letto, paura perchè non poteva più parlare con i suoi familiari. «Ho sempre avuto paura che se non avessi fatto quello che diceva avrebbe potuto fare qualcosa di molto brutto», ha raccontato ancora la donna, «perchè lui mi minacciava di morte, mi diceva che se non avessi fatto quello che diceva l’avrebbe fatta pagare anche ai mie figli».

Il coraggio di andare oltre l’ha trovato due giorni dopo un intervento chirurgico al basso ventre.

Durante l’ennesima lite l’uomo l’ha colpita con un calcio proprio sulla ferita. E’ stato allora che ha chiamato il suo avvocato Monica Passamonti (che l’ha assistita nel processo in cui si è costituita parte civile) e i carabinieri, è stato allora che ha ricominciato a vivere. Anche se l’andata via di casa dell’uomo ha significato un anno di telefonate, di sms di minacce, di pedinamenti sul luogo di lavoro. Fino a quando non è stato rinviato a giudizio per maltrattamenti. «Il percorso che s’intraprende per arrivare a denunciare il padre dei figli», dice l’avvocato Passamonti, «non è mai facile. Ma una volta avviato non bisogna tornare indietro. Oggi la nuova legge offre strumenti importanti per intervenire senza perdere tempo». Prima che sia troppo tardi.

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