Spara al figlio malato mentre dorme
Non regge il peso della disperazione. La vittima aveva perso il lavoro di vigile urbano per problemi psichiatrici, la madre assiste al delitto
Due colpi di fucile a volto e torace, poi confessa: «L’ho dovuto fare»
CAMPLI. La prima fucilata lo trafigge al torace. La seconda lo centra al volto. Giuseppe Raimondo non ha scampo. Il padre, Vincenzo, si avvicina al figlio mentre dorme, in una piccola stanza al secondo piano di una palazzina di Castelnuovo, frazione di Campli. Giuseppe, 37 anni, vigile urbano che ha perso il lavoro a Mariano Comense (Como) per problemi psichiatrici, fa in tempo ad aprire gli occhi. A vedere il padre, 77 anni, di Castelbuono (Palermo), che gli punta il fucile Beretta calibro 12 a canne sovrapposte. Alza il braccio quando parte il primo colpo, cade dal letto e l’anziano lo finisce.
E’ una tragedia familiare: padre, madre e due figli senza lavoro. Vittima e assassino palermitani; la donna di Campli e il secondogenito nato a Teramo. E’ un delitto innescato dall’impotenza di un padre ad assistere il figlio malato, dimesso da pochi giorni dal reparto di Psichiatria di Teramo, dove era stato ricoverato per crisi d’ansia sfociate, due settimane fa, in un episodio che dal Comasco definiscono di forte aggressività per di più avvenuto in una scuola elementare.
Sono le 7,30 quando il padre, Vincenzo Raimondo carica il fucile, entra in camera da letto e spara due colpi secchi in successione. In casa c’è anche la moglie, Maria Teresa Caporale, mentre l’altro figlio, Gabriele di 33 anni, è uscito alle 7 in punto per andare alla prima messa del mattino nel duomo di Campli.
Vincenzo getta per terra l’arma ed esce di casa. E’ un fucile detenuto abusivamente, o meglio denunciato oltre quindici anni fa quando la famiglia viveva ancora a Palermo e poi mai più segnalato alla caserma dei carabinieri di Campli. Un testimone racconta di aver visto l’omicida con lo sguardo attonito, quasi in trance, avviarsi verso il centro del paese. Verso, cioè, la caserma dei carabinieri.
Vincenzo Raimondo cammina barcollando e ripete la frase: «E’ ancora vivo mio figlio?». Cammina per 550-600 metri in salita. Ma torniamo davanti casa. L’inquilina del primo piano, la signora Lina, sta vestendo la figlia per accompagnarla a scuola: «Ho sentito due botti. Pensavo che fossero cadute due sedie... Non mi sono resa conto di nulla».
Sono le urla della mamma Maria Teresa a fare affacciare i vicini di casa. «Ha ucciso mio figlio. Ha ucciso mio figlio», grida la donna mentre corre per strada a cercare aiuto. Incontra subito un amico di famiglia, Luca Del Paggio, che abita a dieci metri di distanza, vende legna e la sera gioca a carte con Vincenzo Raimondo nel bar centrale di Campli.
Sono amici, ma l’assassino non si è mai sfogato con il vicino. Che non capisce subito a chi si riferisca la madre che urla e chiede aiuto per strada. «Ho chiamato prima il 118, poi i vigili urbani (il comandante di Campli, peraltro, è parente della famiglia Raimondo, ndr). E’ gente molto riservata. So che i vigili hanno avvisato i carabinieri. Ma lo hanno già preso?», chiede Del Paggio. Sì, Vincenzo Raimondo non fa neppure in tempo a raggiungere la stazione dei carabinieri, passando davanti alla cattedrale dove, in quel momento, l’altro figlio Gabriele, laureato in giurisprudenza e molto devoto, al punto tale da andare in chiesa mattina e sera, sta assistendo alla messa.
Quando l’omicida incontra il maresciallo Marino Capponi, comandante dei carabinieri di Campli, chiede anche a lui: «Ma mio figlio è morto?».
Vincenzo Raimondo sta per crollare. Lo fa poco dopo in caserma, davanti al capitano Pompeo Quagliozzi, comandante della compagnia di Alba e Nazario Giuliani, capo del reparto operativo. E qui che, alle 10,30, l’omicida dice la frase chiave: «L’ho dovuto fare». Confessa tutta la sua disperazione di padre impotente che, due settimane fa, si è visto tornare a casa il figlio più grande, senza lavoro e con problemi psichiatrici. Con lui, ormai, discuteva tutti i giorni. Non sopportava di vederlo a letto, ora depresso ora ansioso. Con due fucilate, si è tolto di dosso un peso troppo grande per lui.
Alle 11.18, il padre omicida esce dalla caserma sottobraccio ai carabinieri. Ha il cappuccio di lana calato fino alla bocca. Lo portano in procura, davanti al pm Davide Rosati. Lo difende un avvocato d’ufficio, ma questa volta non dice nulla.
E’ una tragedia familiare: padre, madre e due figli senza lavoro. Vittima e assassino palermitani; la donna di Campli e il secondogenito nato a Teramo. E’ un delitto innescato dall’impotenza di un padre ad assistere il figlio malato, dimesso da pochi giorni dal reparto di Psichiatria di Teramo, dove era stato ricoverato per crisi d’ansia sfociate, due settimane fa, in un episodio che dal Comasco definiscono di forte aggressività per di più avvenuto in una scuola elementare.
Sono le 7,30 quando il padre, Vincenzo Raimondo carica il fucile, entra in camera da letto e spara due colpi secchi in successione. In casa c’è anche la moglie, Maria Teresa Caporale, mentre l’altro figlio, Gabriele di 33 anni, è uscito alle 7 in punto per andare alla prima messa del mattino nel duomo di Campli.
Vincenzo getta per terra l’arma ed esce di casa. E’ un fucile detenuto abusivamente, o meglio denunciato oltre quindici anni fa quando la famiglia viveva ancora a Palermo e poi mai più segnalato alla caserma dei carabinieri di Campli. Un testimone racconta di aver visto l’omicida con lo sguardo attonito, quasi in trance, avviarsi verso il centro del paese. Verso, cioè, la caserma dei carabinieri.
Vincenzo Raimondo cammina barcollando e ripete la frase: «E’ ancora vivo mio figlio?». Cammina per 550-600 metri in salita. Ma torniamo davanti casa. L’inquilina del primo piano, la signora Lina, sta vestendo la figlia per accompagnarla a scuola: «Ho sentito due botti. Pensavo che fossero cadute due sedie... Non mi sono resa conto di nulla».
Sono le urla della mamma Maria Teresa a fare affacciare i vicini di casa. «Ha ucciso mio figlio. Ha ucciso mio figlio», grida la donna mentre corre per strada a cercare aiuto. Incontra subito un amico di famiglia, Luca Del Paggio, che abita a dieci metri di distanza, vende legna e la sera gioca a carte con Vincenzo Raimondo nel bar centrale di Campli.
Sono amici, ma l’assassino non si è mai sfogato con il vicino. Che non capisce subito a chi si riferisca la madre che urla e chiede aiuto per strada. «Ho chiamato prima il 118, poi i vigili urbani (il comandante di Campli, peraltro, è parente della famiglia Raimondo, ndr). E’ gente molto riservata. So che i vigili hanno avvisato i carabinieri. Ma lo hanno già preso?», chiede Del Paggio. Sì, Vincenzo Raimondo non fa neppure in tempo a raggiungere la stazione dei carabinieri, passando davanti alla cattedrale dove, in quel momento, l’altro figlio Gabriele, laureato in giurisprudenza e molto devoto, al punto tale da andare in chiesa mattina e sera, sta assistendo alla messa.
Quando l’omicida incontra il maresciallo Marino Capponi, comandante dei carabinieri di Campli, chiede anche a lui: «Ma mio figlio è morto?».
Vincenzo Raimondo sta per crollare. Lo fa poco dopo in caserma, davanti al capitano Pompeo Quagliozzi, comandante della compagnia di Alba e Nazario Giuliani, capo del reparto operativo. E qui che, alle 10,30, l’omicida dice la frase chiave: «L’ho dovuto fare». Confessa tutta la sua disperazione di padre impotente che, due settimane fa, si è visto tornare a casa il figlio più grande, senza lavoro e con problemi psichiatrici. Con lui, ormai, discuteva tutti i giorni. Non sopportava di vederlo a letto, ora depresso ora ansioso. Con due fucilate, si è tolto di dosso un peso troppo grande per lui.
Alle 11.18, il padre omicida esce dalla caserma sottobraccio ai carabinieri. Ha il cappuccio di lana calato fino alla bocca. Lo portano in procura, davanti al pm Davide Rosati. Lo difende un avvocato d’ufficio, ma questa volta non dice nulla.