LE TAPPE DELLA VICENDA
Un’inchiesta archiviata nel 2010 e il mistero dell’uomo che accusò se stesso e altri due
Sei pagine per archiviare un massacro e poco più di tre righe per mettere nero su bianco che «non si profilano ulteriori sentieri investigativi da percorrere per l'individuazione del colpevole». Il delitto dell'avvocato Libero Masi e della moglie Emanuela Chelli resta un mistero con mille ipotesi e nessuna certezza. Nemmeno quella di una rapina degenerata. Nel decreto di archiviazione l’allora gip di Teramo Guendalina Buccella ha spazzato via anche l'unica convinzione di investigatori e inquirenti dopo aver scartato tutte le altre ipotesi. «Quanto all'ipotizzata rapina», ha scritto il gip, «gli accertamenti davano esito negativo, non potendo, poi, trascurare, il significato del successivo rinvenimento della cospicua somma di denaro che l'avvocato aveva riscosso il pomeriggio dell'omicidio». Archiviati i cinque sospettati: tre marsicani e due teramani. I marsicani sono gli stessi che cinque mesi dopo il delitto di Nereto vennero arrestati e poi condannati (prima all'ergastolo e in secondo grado a 30 anni) per l'omicidio di Roberto Manni, giovane commerciante di Morino. «Le indagini», si legge nel decreto, «hanno consentito di escludere la loro presenza nella zona di Nereto in epoca compatibile con il delitto, di apprezzare l'incompatibilità dell'ascia rivenuta nella loro abitazione con quella utilizzata nella villetta di Nereto e di accertare che le impronte dei tre non corrispondono a quelle trovate nella casa dei Masi».
E poi c’è la figura di Massimo Bosco, disoccupato, morto a 41 anni nel 2013 dopo essere stato preso a calci e pietrate alla periferia di Arezzo in una storia di disperazione tra barboni. Il suo nome era legato al delitto dei coniugi Masi: accusò se stesso e altre due persone dell'omicidio ma venne condannato a due anni e dieci mesi per calunnia. Raccontava che lui, come palo, ed altre due persone, avevano ammazzato i Masi. Era stato capace di descrivere anche molti particolari del delitto. Nessuno gli credette: per inquirenti e investigatori era solo un millantatore. Proprio nel giorno della sua condanna, uno dei due uomini che aveva indicato come suoi complici dell’omicidio dell’avvocato e della moglie morì per overdose a Pescara. (d.p.)
E poi c’è la figura di Massimo Bosco, disoccupato, morto a 41 anni nel 2013 dopo essere stato preso a calci e pietrate alla periferia di Arezzo in una storia di disperazione tra barboni. Il suo nome era legato al delitto dei coniugi Masi: accusò se stesso e altre due persone dell'omicidio ma venne condannato a due anni e dieci mesi per calunnia. Raccontava che lui, come palo, ed altre due persone, avevano ammazzato i Masi. Era stato capace di descrivere anche molti particolari del delitto. Nessuno gli credette: per inquirenti e investigatori era solo un millantatore. Proprio nel giorno della sua condanna, uno dei due uomini che aveva indicato come suoi complici dell’omicidio dell’avvocato e della moglie morì per overdose a Pescara. (d.p.)