marcillle 1956-2006
Io, vedova a 18 anni
Maria, perso il marito, ha cresciuto due figlie
MANOPPELLO. L’8 agosto 1956, a 18 anni, divenne la vedova più giovane fra le centinaia che quel giorno dovettero accettare lo stesso destino. Maria Di Valerio si era sposata appena due anni prima, a Serramonacesca, con Camillo Iezzi, 26 anni, minatore di Manoppello. Esattamente cinquant’anni fa rimase sola con una bimba di 14 mesi, Gemma, e un’altra in grembo, partorita dopo tre mesi, e alla quale ha dato lo stesso nome del padre, al femminile: Camilla.
Oggi Maria Di Valerio, che vive a Manoppello Scalo, ha tre nipoti che conoscono a memoria la storia dei nonni. Nel Bois du Cazier, quel giorno, trovò la morte anche il fratello minore di Camillo, Rocco, 21 anni, che era fidanzato con Anna, la sorella di Maria.
La loro storia finì ancor prima di cominciare. Della famiglia Iezzi si salvò il fratello maggiore, Geremia, che non stava bene e non andò al lavoro. Quel giorno la miniera non dette carbone, ma restituì i corpi senza vita di 262 minatori. Maria Di Valerio racconta quei momenti terribili. «Mi accorsi che qualcosa non andava perché non vidi passare il treno coi vagoni carichi che solitamente avvistavo dalla finestra verso le 10 del mattino. Ebbi un presagio, una fitta al cuore e uscii di casa dirigendomi verso la miniera».
Quale fu la prima scena davanti ai suoi occhi? «Cominciavano a giungere anche altre persone. Dall’imbocco del pozzo saliva un fumo nero, fitto e maleodorante, i guardiani chiusero i cancelli e non ci fecero entrare».
Quando vide il corpo di suo marito e del fratello? «Furono fra i primi a essere trovati poiché quel giorno stavano a una quota di 6/700 metri, mentre altri stavano più giù, a oltre 900. Forse mio marito respirava ancora poiché gli praticarono un massaggio cardiaco e un’iniezione. Ma fu tutto vano. Furono portati in superficie la mattina stessa. I loro corpi erano quasi intatti, in confronto ad altri poveretti, irriconoscibili».
Camillo le aveva mai parlato delle condizioni del suo lavoro? «Raramente, anche perché io ero una bambina e non potevo certo capire certe cose, allora. Ma il giorno prima della tragedia mi confidò che aveva trovato il modo di fuggire in un luogo sicuro in caso di incidente. Evidentemente non ci riuscì». Sono trascorsi 50 anni, oggi si commemorano quei lavoratori.
Con quale spirito partecipa a quest’evento? «Per decenni ho provato delusione e rabbia, come tutti i parenti. I governi italiani ci hanno ignorato. Eppure, il lavoro di quei minatori contribuì a riportare su le sorti di una nazione ridotta all’osso».
Da chi ha avuto la pensione per il lavoro di suo marito? «Dal governo belga, qualche anno dopo il disastro. Il nostro governo non riconosce il lavoro fatto altrove».
Oggi avrà la medaglia al valor civile, per lei quanto vale? «Tantissimo. E ringrazio il presidente emerito Ciampi che ha saputo guardare dentro a questa storia. Vedove e parenti aspettavano un riconoscimento da decenni. Si è indugiato troppo. L’ultimo ritardo è di solo un anno: dall’assegnazione del 2 giugno 2005 le medaglie sono arrivate oggi. Ma tutto è in linea con la storia di Marcinelle».
Oggi Maria Di Valerio, che vive a Manoppello Scalo, ha tre nipoti che conoscono a memoria la storia dei nonni. Nel Bois du Cazier, quel giorno, trovò la morte anche il fratello minore di Camillo, Rocco, 21 anni, che era fidanzato con Anna, la sorella di Maria.
La loro storia finì ancor prima di cominciare. Della famiglia Iezzi si salvò il fratello maggiore, Geremia, che non stava bene e non andò al lavoro. Quel giorno la miniera non dette carbone, ma restituì i corpi senza vita di 262 minatori. Maria Di Valerio racconta quei momenti terribili. «Mi accorsi che qualcosa non andava perché non vidi passare il treno coi vagoni carichi che solitamente avvistavo dalla finestra verso le 10 del mattino. Ebbi un presagio, una fitta al cuore e uscii di casa dirigendomi verso la miniera».
Quale fu la prima scena davanti ai suoi occhi? «Cominciavano a giungere anche altre persone. Dall’imbocco del pozzo saliva un fumo nero, fitto e maleodorante, i guardiani chiusero i cancelli e non ci fecero entrare».
Quando vide il corpo di suo marito e del fratello? «Furono fra i primi a essere trovati poiché quel giorno stavano a una quota di 6/700 metri, mentre altri stavano più giù, a oltre 900. Forse mio marito respirava ancora poiché gli praticarono un massaggio cardiaco e un’iniezione. Ma fu tutto vano. Furono portati in superficie la mattina stessa. I loro corpi erano quasi intatti, in confronto ad altri poveretti, irriconoscibili».
Camillo le aveva mai parlato delle condizioni del suo lavoro? «Raramente, anche perché io ero una bambina e non potevo certo capire certe cose, allora. Ma il giorno prima della tragedia mi confidò che aveva trovato il modo di fuggire in un luogo sicuro in caso di incidente. Evidentemente non ci riuscì». Sono trascorsi 50 anni, oggi si commemorano quei lavoratori.
Con quale spirito partecipa a quest’evento? «Per decenni ho provato delusione e rabbia, come tutti i parenti. I governi italiani ci hanno ignorato. Eppure, il lavoro di quei minatori contribuì a riportare su le sorti di una nazione ridotta all’osso».
Da chi ha avuto la pensione per il lavoro di suo marito? «Dal governo belga, qualche anno dopo il disastro. Il nostro governo non riconosce il lavoro fatto altrove».
Oggi avrà la medaglia al valor civile, per lei quanto vale? «Tantissimo. E ringrazio il presidente emerito Ciampi che ha saputo guardare dentro a questa storia. Vedove e parenti aspettavano un riconoscimento da decenni. Si è indugiato troppo. L’ultimo ritardo è di solo un anno: dall’assegnazione del 2 giugno 2005 le medaglie sono arrivate oggi. Ma tutto è in linea con la storia di Marcinelle».