Marco Alessandrini: «Denaro pubblico per il film sull'assassinio di mio padre? Inaccettabile»
La storia della banda terroristica che uccise anche il giudice Emilio Alessandrini nel film con Riccardo Scamarcio e Giovanna Mezzogiorno
PESCARA. La mattina del 29 gennaio 1979, Marco Alessandrini aveva 8 anni compiuti da poco più di un mese e viveva a Milano. Quella mattina suo padre lo accompagnò in auto a scuola. Pochi minuti dopo, un commando di Prima Linea lo uccise sparandogli a sangue freddo mentre era fermo a un semaforo.
Emilio Alessandrini aveva 37 anni. Era nato a Penne e aveva studiato a Pescara dove viveva la sua famiglia. Era uno dei magistrati più famosi d’Italia per la sua inchiesta sulla strage di Piazza Fontana. Trent’anni dopo, quella mattina di sangue sta ora dentro un film, «La prima linea» tratto dal libro «Miccia corta» scritto da Sergio Segio che, insieme a Marco Donat Cattin, faceva parte di quel commando omicida. Il film - al centro di polemiche - uscirà domani in tutte le sale. Avvocato, 39 anni, Marco Alessandrini è stato il candidato del centrosinistra a sindaco di Pescara, la sua città, nelle elezioni di giugno. Il film lui l’ha visto in anteprima.
C’è qualcosa del film che le è piaciuta?
«Mi sono avvicinato alla proiezione con curiosità ma anche con un carico di disagio. Volevo vedere che cosa era venuto fuori. E francamente sono uscito deluso perché lo sforzo di raccontare un periodo storico così drammatico del Paese non è granché riuscito. Mentre vedevo il film ero percorso come da un senso di impazienza. Mi dicevo: “Ma come è lento questo film!”. Per carità, il film è anche ben girato, ma sembra un telefilm. Guardandolo ho avuto la sensazione del già visto. Se mi è piaciuto qualcosa? Direi di no. E poi c’è quel passaggio in cui ho visto me stesso bambino interpretato da qualcun altro».
Che sensazione ha provato?
«Un tuffo al cuore perché non pensiamo mai di vederci rappresentati su un grande schermo da un attore. Questo è un punto su cui ho cercato di riflettere: sono consapevole che ciò che ho visto è una finzione mediata dallo strumento cinematografico. La realtà, invece, è stata fatta di lutti, violenza e tensioni sociali molto forti».
Che ricordi ha della mattina del 29 gennaio 1979 in cui i terroristi di Prima Linea uccisero suo padre?
«Non ho ricordi particolari. Era stata una mattina come tutte le altre finché ero rimasto con mio padre. Ma io ricordo di più i ritorni a casa che le andate a scuola».
Usare due attori belli e adorati dal pubblico giovanile come Riccardo Scamarcio e Giovanna Mezzogiorno per interpretare due terroristi che seminarono morte: c’è un rischio in questo per chi non ha conosciuto l’inferno degli Anni di piombo?
«Mi hanno colpito due aspetti del film: la circostanza che era in ballo una qualche forma di finanziamento pubblico e il fatto che la scelta degli interpreti fosse caduta su due attori come Scamarcio e la Mezzogiorno molto amati soprattutto dai giovani. Il film di certo non ha toni apologetici verso il terrorismo, però, ugualmente, resto perplesso».
Da cosa?
«La mia perplessità di fondo riguarda le tecniche narrative scelte, che vanno verso una certa enfatizzazione».
Per esempio?
«Nel film ci sono più azioni delittuose. Mi ha colpito che fossero utilizzate scene al rallentatore che rappresentano i killer che avanzano quasi compatti come il Quarto stato del quadro di Pelizza da Volpedo. Trovo incredibile, poi, che il film non faccia accenno all’omicidio del giudice Galli avvenuto pochi mesi dopo l’assassinio di mio padre. Eppure quell’omicidio aveva un valore simbolico enorme. Galli fu ucciso all’università mentre stringeva in mano il codice. Anche la ricostruzione della scena dell’omicidio Alessandrini non mi è sembrata calzante. L’assassinio avvenne in una strada affollata. Nel film mio padre viene ucciso in una via deserta».
E’ un difetto di realismo che imputa al film?
«In un certo senso sì. La cosa, secondo me, più efficace del film sono i filmati dell’epoca, come le immagini dei funerali di mio padre che fanno impressione ancora oggi, con piazza Duomo a Milano strapiena di gente. Vi si respira un’atmosfera di partecipazione popolare che testimonia del fatto che quegli omicidi non vennero mai accettati dall’opinione pubblica».
E’ giusto che lo Stato finanzi un film come «La prima linea»?
«No. Penso che sia normale che il cinema voglia raccontare una stagione recente della storia del Paese come questa; è avvenuto anche in Germania dove il film sulla Banda Baader-Meinhof, l’anno scorso, è stato anche candidato all’Oscar. Trovo, però, inaccettabile che questa intrapresa economica sia finanziata con il denaro pubblico. Lo Stato, che i terroristi volevano sovvertire in maniera violenta, non puo finanziare un film di questo tipo. Mi sembra una contraddizione in termini. Quando il film era ancora in preparazione, sono stato contattato da uno dei produttori, Andrea Occhipinti, che mi ha mandato anche la sceneggiatura. L’ho letta, anche velocemente perché non riuscivo a vedere quella storia trasposta in una pellicola. Io credo, però, che a uno come me, al parente di una vittima, non si possa chiedere di fare il giudice in questa materia. Io personalmente non voglio farlo. Il giudizio che dò sul film è un giudizio da spettatore e da persona che sa qualcosa di quel periodo».
Che rapporto ha con i carnefici, il figlio di una vittima come lei?
«Per molto tempo ho vissuto la mia vicenda personale in maniera molto privata: non avevo voglia di parlarne in pubblico. Poi qualcosa è cambiato in me, grazie al lavoro dell’Associazione Alessandrini e dopo aver considerato che, per decenni, il terrorismo era rimasto un argomento tabù, raccontato solo attraverso le voci e i libri di coloro che avevano impugnato le armi. Mi sono accorto che il punto di vista di chi la violenza l’aveva subìta era cancellata dal dibattito pubblico».
Oggi quindi qual è il suo rapporto con i terroristi di allora?
«La riflessione che faccio oggi è questa: il mio lutto privato era anche una questione collettiva. L’approccio agli anni Settanta sta cambiando. Il libro di Mario Calabresi, “Spingendo la notte più in là”, è stato uno spartiacque in questo senso. So che a noi si chiede uno sforzo di oggettività, ma io convivo ancora con il vuoto lasciato dalla perdita di un genitore. Oggi mi sta a cuore che il terrorismo sia raccontato da tutti i possibili punti di vista. Resta il fatto, però, che a me anche solo i nomi di questi qua mi fanno venire i... Ma non voglio ergermi a giudice di nessuno. Con loro, dal punto di vista della legge, la partita è chiusa. Ma non esiste solo la legge. C’è anche la morale. E vorrei che seguissero l’invito, rivolto loro dal presidente Napolitano, a condotte pubbliche più riservate».
La memoria inchioda al passato o permette di aprirsi al futuro?
«La memoria, per me, significa guardarsi indietro per essere cittadini capaci di affrontare il futuro con più consapevolezza. Se c’è un vizio che coltivo è quello della memoria».
Emilio Alessandrini aveva 37 anni. Era nato a Penne e aveva studiato a Pescara dove viveva la sua famiglia. Era uno dei magistrati più famosi d’Italia per la sua inchiesta sulla strage di Piazza Fontana. Trent’anni dopo, quella mattina di sangue sta ora dentro un film, «La prima linea» tratto dal libro «Miccia corta» scritto da Sergio Segio che, insieme a Marco Donat Cattin, faceva parte di quel commando omicida. Il film - al centro di polemiche - uscirà domani in tutte le sale. Avvocato, 39 anni, Marco Alessandrini è stato il candidato del centrosinistra a sindaco di Pescara, la sua città, nelle elezioni di giugno. Il film lui l’ha visto in anteprima.
C’è qualcosa del film che le è piaciuta?
«Mi sono avvicinato alla proiezione con curiosità ma anche con un carico di disagio. Volevo vedere che cosa era venuto fuori. E francamente sono uscito deluso perché lo sforzo di raccontare un periodo storico così drammatico del Paese non è granché riuscito. Mentre vedevo il film ero percorso come da un senso di impazienza. Mi dicevo: “Ma come è lento questo film!”. Per carità, il film è anche ben girato, ma sembra un telefilm. Guardandolo ho avuto la sensazione del già visto. Se mi è piaciuto qualcosa? Direi di no. E poi c’è quel passaggio in cui ho visto me stesso bambino interpretato da qualcun altro».
Che sensazione ha provato?
«Un tuffo al cuore perché non pensiamo mai di vederci rappresentati su un grande schermo da un attore. Questo è un punto su cui ho cercato di riflettere: sono consapevole che ciò che ho visto è una finzione mediata dallo strumento cinematografico. La realtà, invece, è stata fatta di lutti, violenza e tensioni sociali molto forti».
Che ricordi ha della mattina del 29 gennaio 1979 in cui i terroristi di Prima Linea uccisero suo padre?
«Non ho ricordi particolari. Era stata una mattina come tutte le altre finché ero rimasto con mio padre. Ma io ricordo di più i ritorni a casa che le andate a scuola».
Usare due attori belli e adorati dal pubblico giovanile come Riccardo Scamarcio e Giovanna Mezzogiorno per interpretare due terroristi che seminarono morte: c’è un rischio in questo per chi non ha conosciuto l’inferno degli Anni di piombo?
«Mi hanno colpito due aspetti del film: la circostanza che era in ballo una qualche forma di finanziamento pubblico e il fatto che la scelta degli interpreti fosse caduta su due attori come Scamarcio e la Mezzogiorno molto amati soprattutto dai giovani. Il film di certo non ha toni apologetici verso il terrorismo, però, ugualmente, resto perplesso».
Da cosa?
«La mia perplessità di fondo riguarda le tecniche narrative scelte, che vanno verso una certa enfatizzazione».
Per esempio?
«Nel film ci sono più azioni delittuose. Mi ha colpito che fossero utilizzate scene al rallentatore che rappresentano i killer che avanzano quasi compatti come il Quarto stato del quadro di Pelizza da Volpedo. Trovo incredibile, poi, che il film non faccia accenno all’omicidio del giudice Galli avvenuto pochi mesi dopo l’assassinio di mio padre. Eppure quell’omicidio aveva un valore simbolico enorme. Galli fu ucciso all’università mentre stringeva in mano il codice. Anche la ricostruzione della scena dell’omicidio Alessandrini non mi è sembrata calzante. L’assassinio avvenne in una strada affollata. Nel film mio padre viene ucciso in una via deserta».
E’ un difetto di realismo che imputa al film?
«In un certo senso sì. La cosa, secondo me, più efficace del film sono i filmati dell’epoca, come le immagini dei funerali di mio padre che fanno impressione ancora oggi, con piazza Duomo a Milano strapiena di gente. Vi si respira un’atmosfera di partecipazione popolare che testimonia del fatto che quegli omicidi non vennero mai accettati dall’opinione pubblica».
E’ giusto che lo Stato finanzi un film come «La prima linea»?
«No. Penso che sia normale che il cinema voglia raccontare una stagione recente della storia del Paese come questa; è avvenuto anche in Germania dove il film sulla Banda Baader-Meinhof, l’anno scorso, è stato anche candidato all’Oscar. Trovo, però, inaccettabile che questa intrapresa economica sia finanziata con il denaro pubblico. Lo Stato, che i terroristi volevano sovvertire in maniera violenta, non puo finanziare un film di questo tipo. Mi sembra una contraddizione in termini. Quando il film era ancora in preparazione, sono stato contattato da uno dei produttori, Andrea Occhipinti, che mi ha mandato anche la sceneggiatura. L’ho letta, anche velocemente perché non riuscivo a vedere quella storia trasposta in una pellicola. Io credo, però, che a uno come me, al parente di una vittima, non si possa chiedere di fare il giudice in questa materia. Io personalmente non voglio farlo. Il giudizio che dò sul film è un giudizio da spettatore e da persona che sa qualcosa di quel periodo».
Che rapporto ha con i carnefici, il figlio di una vittima come lei?
«Per molto tempo ho vissuto la mia vicenda personale in maniera molto privata: non avevo voglia di parlarne in pubblico. Poi qualcosa è cambiato in me, grazie al lavoro dell’Associazione Alessandrini e dopo aver considerato che, per decenni, il terrorismo era rimasto un argomento tabù, raccontato solo attraverso le voci e i libri di coloro che avevano impugnato le armi. Mi sono accorto che il punto di vista di chi la violenza l’aveva subìta era cancellata dal dibattito pubblico».
Oggi quindi qual è il suo rapporto con i terroristi di allora?
«La riflessione che faccio oggi è questa: il mio lutto privato era anche una questione collettiva. L’approccio agli anni Settanta sta cambiando. Il libro di Mario Calabresi, “Spingendo la notte più in là”, è stato uno spartiacque in questo senso. So che a noi si chiede uno sforzo di oggettività, ma io convivo ancora con il vuoto lasciato dalla perdita di un genitore. Oggi mi sta a cuore che il terrorismo sia raccontato da tutti i possibili punti di vista. Resta il fatto, però, che a me anche solo i nomi di questi qua mi fanno venire i... Ma non voglio ergermi a giudice di nessuno. Con loro, dal punto di vista della legge, la partita è chiusa. Ma non esiste solo la legge. C’è anche la morale. E vorrei che seguissero l’invito, rivolto loro dal presidente Napolitano, a condotte pubbliche più riservate».
La memoria inchioda al passato o permette di aprirsi al futuro?
«La memoria, per me, significa guardarsi indietro per essere cittadini capaci di affrontare il futuro con più consapevolezza. Se c’è un vizio che coltivo è quello della memoria».