LAVORO
Mauro: dati deludenti, ora bisogna correre
Il docente di Politica economica dell’università di Pescara riflette sulla perdita di occupazione: dopo due anni di ripresa, aspettative deluse
L’analisi dei dati sul mercato del lavoro pubblicati dall’Istat appaiono largamente inattesi. Dopo due anni di ripresa produttiva, che aveva portato all’aumento del prodotto interno lordo, sussistevano concrete e diffuse aspettative per una crescita dei livelli occupazionali, sulla scia di quanto accaduto a livello nazionale. Tutto questo non si è verificato.
Nel primo trimestre 2017 l’occupazione è diminuita del 3,5%, passando da 481 a 464 mila unità lavorative. Nel confronto con lo stesso periodo dell’anno precedente, gli indicatori mostrano percentuali inferiori alla media delle altre circoscrizioni territoriali, incluso il Mezzogiorno. Un dato significativo consiste nell’aumento del numero delle persone in cerca di lavoro che spinge il tasso di disoccupazione verso l’alto sino a raggiungere il tetto del 13,7%.
Questa volta è mancato lo stimolo espansivo del settore agricolo, che perde nell’anno ben 12 mila unità e, soprattutto, nell’industria in senso stretto (-9,2%) che frena la sua crescita dopo anni di significativo dinamismo. Si tratta ovviamente di cifre ufficiali, all’interno delle quali non si misura l’incidenza della quota dei sottoccupati o quella del lavoro precario che, ove calcolate, sposterebbero ancora verso l’alto il valore reale della disoccupazione.
Comunque, il dato certo è che gli importanti e recenti progressi nella sfera produttiva non riescono a compensare le perdite fatte registrare dalle due grandi ondate recessive. Rispetto alla fase pre-crisi, il tasso di disoccupazione rimane alto, quasi il doppio che nel 2008, mancano circa 50 mila posti di lavoro ed è cresciuta in misura marcata la disoccupazione nella classe di età 15-34 anni, tanto da superare la cifra del 40%.
In prima approssimazione si può affermare che il restringimento del mercato del lavoro trovi una triplice spiegazione. Primo, nella sofferenza che ancora permane nell’ambito delle piccole imprese, che si riflette sull’andamento della domanda interna, che appare, anche in quest’ultima rilevazione piuttosto significativa. Secondo, nel processo di ristrutturazione aziendale che spinge molte imprese ad affrontare il nodo della produttività e dell’efficienza. Terzo, negli effetti devastanti del terremoto e del maltempo che hanno determinato, coinvolgendo fette importanti del territorio abruzzese e della sua agricoltura, perdite non trascurabili di posti di lavoro.
Il lavoro rimane, dunque, una questione centrale, la cui soluzione non può essere ricondotta alla sola dinamica economica, in quanto coinvolge aspetti fondamentali e concreti della vita delle persone, quali la dignità, l’etica, l’inclusione sociale. Non può essere scaricato sui giovani il peso degli squilibri e delle contraddizioni che caratterizzano il percorso economico.
Non v’è dubbio che sull’attuale quadro occupazionale influiscono anche i grandi cambiamenti connessi alla rivoluzione digitale e al processo tecnologico. Ancora oggi, pur in presenza di un intenso dibattito, non si conosce ancora la direzione delle trasformazioni in atto. Se cioè esse producono un impatto positivo o negativo sul mercato del lavoro. Al momento la riflessione che si può fare è che l’economia abruzzese non è ancora sufficientemente attrezzata per affrontare le sfide che il nuovo paradigma impone. È la struttura produttiva della regione che suggerisce questa riflessione. I dati sulle esportazioni testimoniano chiaramente che una larga parte del sistema economico non è in grado di disegnare traiettorie competitive e avanzate, palesando un netto ritardo rispetto ai processi in corso.
Sono poche le imprese che si affacciano sui mercati internazionali e poche quelle capaci di ampliare la dimensione qualitativa del mercato del lavoro e quindi di utilizzare le competenze che i giovani esprimono. Tale situazione di sostanziale sottoutilizzo della forza lavoro qualificata tende a ridurre le prospettive di crescita e determina fenomeni negativi in termini di invecchiamento della popolazione, di bassa produttività e di limitato potere d’acquisto.
Credo che l’Abruzzo abbia bisogno di innalzare la soglia della competitività, potenziando quei fattori strategici che conducono alla crescita economica, piuttosto che fare ricorso a forme di flessibilità accentuata come i dati sembrano dimostrare. Richiamando un titolo dell’Economist del 1975, “Lepri e Tartarughe”, forse l’Abruzzo non potrà più essere lepre come nei decenni precedenti. Da quell’epoca è cambiato praticamente tutto, inclusi gli stringenti vincoli europei, ma di certo non potrà essere una tartaruga, perché a farne le spese sarebbero soprattutto i giovani e quindi il futuro della regione.
Il masterplan rappresenta un’occasione da non sprecare. Gli investimenti pubblici possono avere un effetto di traino sugli investimenti privati. Ma, al tempo stesso, emerge la necessità di utilizzare le risorse in modo lungimirante, chiamando gli attori economici, sociali e istituzionali ad esprimersi sulle cose da fare al fine di rendere più comprensibile e consapevole la direzione che l’Abruzzo intende prendere.
* Docente di Politica economica all’università di Pescara
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Nel primo trimestre 2017 l’occupazione è diminuita del 3,5%, passando da 481 a 464 mila unità lavorative. Nel confronto con lo stesso periodo dell’anno precedente, gli indicatori mostrano percentuali inferiori alla media delle altre circoscrizioni territoriali, incluso il Mezzogiorno. Un dato significativo consiste nell’aumento del numero delle persone in cerca di lavoro che spinge il tasso di disoccupazione verso l’alto sino a raggiungere il tetto del 13,7%.
Questa volta è mancato lo stimolo espansivo del settore agricolo, che perde nell’anno ben 12 mila unità e, soprattutto, nell’industria in senso stretto (-9,2%) che frena la sua crescita dopo anni di significativo dinamismo. Si tratta ovviamente di cifre ufficiali, all’interno delle quali non si misura l’incidenza della quota dei sottoccupati o quella del lavoro precario che, ove calcolate, sposterebbero ancora verso l’alto il valore reale della disoccupazione.
Comunque, il dato certo è che gli importanti e recenti progressi nella sfera produttiva non riescono a compensare le perdite fatte registrare dalle due grandi ondate recessive. Rispetto alla fase pre-crisi, il tasso di disoccupazione rimane alto, quasi il doppio che nel 2008, mancano circa 50 mila posti di lavoro ed è cresciuta in misura marcata la disoccupazione nella classe di età 15-34 anni, tanto da superare la cifra del 40%.
In prima approssimazione si può affermare che il restringimento del mercato del lavoro trovi una triplice spiegazione. Primo, nella sofferenza che ancora permane nell’ambito delle piccole imprese, che si riflette sull’andamento della domanda interna, che appare, anche in quest’ultima rilevazione piuttosto significativa. Secondo, nel processo di ristrutturazione aziendale che spinge molte imprese ad affrontare il nodo della produttività e dell’efficienza. Terzo, negli effetti devastanti del terremoto e del maltempo che hanno determinato, coinvolgendo fette importanti del territorio abruzzese e della sua agricoltura, perdite non trascurabili di posti di lavoro.
Il lavoro rimane, dunque, una questione centrale, la cui soluzione non può essere ricondotta alla sola dinamica economica, in quanto coinvolge aspetti fondamentali e concreti della vita delle persone, quali la dignità, l’etica, l’inclusione sociale. Non può essere scaricato sui giovani il peso degli squilibri e delle contraddizioni che caratterizzano il percorso economico.
Non v’è dubbio che sull’attuale quadro occupazionale influiscono anche i grandi cambiamenti connessi alla rivoluzione digitale e al processo tecnologico. Ancora oggi, pur in presenza di un intenso dibattito, non si conosce ancora la direzione delle trasformazioni in atto. Se cioè esse producono un impatto positivo o negativo sul mercato del lavoro. Al momento la riflessione che si può fare è che l’economia abruzzese non è ancora sufficientemente attrezzata per affrontare le sfide che il nuovo paradigma impone. È la struttura produttiva della regione che suggerisce questa riflessione. I dati sulle esportazioni testimoniano chiaramente che una larga parte del sistema economico non è in grado di disegnare traiettorie competitive e avanzate, palesando un netto ritardo rispetto ai processi in corso.
Sono poche le imprese che si affacciano sui mercati internazionali e poche quelle capaci di ampliare la dimensione qualitativa del mercato del lavoro e quindi di utilizzare le competenze che i giovani esprimono. Tale situazione di sostanziale sottoutilizzo della forza lavoro qualificata tende a ridurre le prospettive di crescita e determina fenomeni negativi in termini di invecchiamento della popolazione, di bassa produttività e di limitato potere d’acquisto.
Credo che l’Abruzzo abbia bisogno di innalzare la soglia della competitività, potenziando quei fattori strategici che conducono alla crescita economica, piuttosto che fare ricorso a forme di flessibilità accentuata come i dati sembrano dimostrare. Richiamando un titolo dell’Economist del 1975, “Lepri e Tartarughe”, forse l’Abruzzo non potrà più essere lepre come nei decenni precedenti. Da quell’epoca è cambiato praticamente tutto, inclusi gli stringenti vincoli europei, ma di certo non potrà essere una tartaruga, perché a farne le spese sarebbero soprattutto i giovani e quindi il futuro della regione.
Il masterplan rappresenta un’occasione da non sprecare. Gli investimenti pubblici possono avere un effetto di traino sugli investimenti privati. Ma, al tempo stesso, emerge la necessità di utilizzare le risorse in modo lungimirante, chiamando gli attori economici, sociali e istituzionali ad esprimersi sulle cose da fare al fine di rendere più comprensibile e consapevole la direzione che l’Abruzzo intende prendere.
* Docente di Politica economica all’università di Pescara
©RIPRODUZIONE RISERVATA