Quagliariello: «Il premierato non migliora le performance della nostra democrazia»
L’ex ministro delle Riforme: «L'unica norma “antiribaltone” davvero efficace è quella di consentire al presidente del Consiglio di sciogliere le Camere»
di GAETANO QUAGLIARIELLO*
La riforma costituzionale del Governo Meloni ha un obiettivo condivisibile: rafforzare il potere esecutivo, creando un più forte collegamento tra il governo e l’espressione della sovranità del popolo. La soluzione avanzata a tal fine è l’elezione diretta del Premier: un caso unico al mondo. La circostanza deve indurre a un supplemento di analisi ma non può considerarsi ragione valida per bocciare la proposta a priori.
I sistemi istituzionali sono meccanismi delicati. Per questo, quando si interviene su un elemento bisogna domandarsi se, nel nuovo assetto, l’equilibrio tra pesi e contrappesi continui a funzionare o, come sarebbe auspicabile, agisca con maggiore efficacia. Questa domanda di fondo il governo penso non se la sia posta perché il testo, così come congegnato, non sembra in grado di migliorare le performances della nostra democrazia.
La riforma, infatti, prevede l’elezione diretta del Premier ma non interviene sul suo rapporto con il Presidente della Repubblica. La riluttanza dell'esecutivo a modificare le prerogative del Capo dello Stato è comprensibile e, in linea teorica, persino condivisibile: si è inteso preservare le funzioni di garanzia del Presidente lasciandone inalterati i poteri, anche al fine di evitare polemiche su presunte "derive plebiscitarie”.
Quando si scomoda la sovranità del popolo, però, bisogna mettersi nelle condizioni di garantire adeguata tutela ai suoi verdetti e, soprattutto, fare in modo che l’espressione diretta non incoraggi scontri istituzionali al vertice dello Stato, mettendo in contrapposizione legittimità formale (derivante dai poteri come previsti dalla Costituzione) e legittimità sostanziale (provenienti dalla volontà dell’elettorato).
Qui risiede il principale vulnus della riforma. Il Premier eletto è troppo debole. Il testo prevede, invero, una norma anti-ribaltone grazie alla quale in caso di crisi il Presidente della Repubblica può sciogliere le Camere o, in alternativa, assegnare a un altro parlamentare della maggioranza l'incarico di formare un nuovo governo. Il rimedio è peggiore del male. Il sistema politico italiano si regge, infatti, su governi di coalizione e la soluzione del “secondo premier” rischia perciò di esacerbare la competizione esistente tra le forze della maggioranza, che già oggi rappresenta il principale problema per la governabilità.
L'unica norma “antiribaltone” efficace è quella di aumentare il potere deterrente del Premier, concedendogli la possibilità di chiedere (e a determinate condizioni ottenere) lo scioglimento delle Camere. Così come già avviene – con modalità differenti – in Gran Bretagna, Germania, Spagna e Svezia.
Infine la legge elettorale che, nessuno ne dubita, ha una funzione determinate per garantire al Premier eletto direttamente una solida maggioranza. La proposta del governo prevede di costituzionalizzare un premio del 55% alle liste a lui collegate: uno sparo nella notte. Non si dice come tale obiettivo possa essere conseguito, non si fissa una soglia di garanzia (nessuno può pensare che il 55% venga assegnato anche se la coalizione raggiunge, ad esempio, solo il 20% dei suffragi), non si chiarisce cosa avverrebbe nel caso in cui la soglia non sia raggiunta.
Per tutti questi motivi diventa auspicabile – anzi, necessario – che il Parlamento intervenga e che l’opposizione, invece di fare barricate, sia disponibile a collaborare. Il testo può essere migliorato con relativa facilità. L’esperienza dovrebbe averlo insegnato a tutti: le riforme è molto meglio farle insieme, evitando la roulette russa del referendum.
*politico e politologo,
già Ministro
per le riforme costituzionali
nel Governo Letta
©RIPRODUZIONE RISERVATA
La riforma costituzionale del Governo Meloni ha un obiettivo condivisibile: rafforzare il potere esecutivo, creando un più forte collegamento tra il governo e l’espressione della sovranità del popolo. La soluzione avanzata a tal fine è l’elezione diretta del Premier: un caso unico al mondo. La circostanza deve indurre a un supplemento di analisi ma non può considerarsi ragione valida per bocciare la proposta a priori.
I sistemi istituzionali sono meccanismi delicati. Per questo, quando si interviene su un elemento bisogna domandarsi se, nel nuovo assetto, l’equilibrio tra pesi e contrappesi continui a funzionare o, come sarebbe auspicabile, agisca con maggiore efficacia. Questa domanda di fondo il governo penso non se la sia posta perché il testo, così come congegnato, non sembra in grado di migliorare le performances della nostra democrazia.
La riforma, infatti, prevede l’elezione diretta del Premier ma non interviene sul suo rapporto con il Presidente della Repubblica. La riluttanza dell'esecutivo a modificare le prerogative del Capo dello Stato è comprensibile e, in linea teorica, persino condivisibile: si è inteso preservare le funzioni di garanzia del Presidente lasciandone inalterati i poteri, anche al fine di evitare polemiche su presunte "derive plebiscitarie”.
Quando si scomoda la sovranità del popolo, però, bisogna mettersi nelle condizioni di garantire adeguata tutela ai suoi verdetti e, soprattutto, fare in modo che l’espressione diretta non incoraggi scontri istituzionali al vertice dello Stato, mettendo in contrapposizione legittimità formale (derivante dai poteri come previsti dalla Costituzione) e legittimità sostanziale (provenienti dalla volontà dell’elettorato).
Qui risiede il principale vulnus della riforma. Il Premier eletto è troppo debole. Il testo prevede, invero, una norma anti-ribaltone grazie alla quale in caso di crisi il Presidente della Repubblica può sciogliere le Camere o, in alternativa, assegnare a un altro parlamentare della maggioranza l'incarico di formare un nuovo governo. Il rimedio è peggiore del male. Il sistema politico italiano si regge, infatti, su governi di coalizione e la soluzione del “secondo premier” rischia perciò di esacerbare la competizione esistente tra le forze della maggioranza, che già oggi rappresenta il principale problema per la governabilità.
L'unica norma “antiribaltone” efficace è quella di aumentare il potere deterrente del Premier, concedendogli la possibilità di chiedere (e a determinate condizioni ottenere) lo scioglimento delle Camere. Così come già avviene – con modalità differenti – in Gran Bretagna, Germania, Spagna e Svezia.
Infine la legge elettorale che, nessuno ne dubita, ha una funzione determinate per garantire al Premier eletto direttamente una solida maggioranza. La proposta del governo prevede di costituzionalizzare un premio del 55% alle liste a lui collegate: uno sparo nella notte. Non si dice come tale obiettivo possa essere conseguito, non si fissa una soglia di garanzia (nessuno può pensare che il 55% venga assegnato anche se la coalizione raggiunge, ad esempio, solo il 20% dei suffragi), non si chiarisce cosa avverrebbe nel caso in cui la soglia non sia raggiunta.
Per tutti questi motivi diventa auspicabile – anzi, necessario – che il Parlamento intervenga e che l’opposizione, invece di fare barricate, sia disponibile a collaborare. Il testo può essere migliorato con relativa facilità. L’esperienza dovrebbe averlo insegnato a tutti: le riforme è molto meglio farle insieme, evitando la roulette russa del referendum.
*politico e politologo,
già Ministro
per le riforme costituzionali
nel Governo Letta
©RIPRODUZIONE RISERVATA