Addio a Roberto, il ragazzo della scorta di Berlinguer
Il ricordo del direttore de “Il Centro” Luca Telese di Roberto Bertuzzi, parte della scorta di Berlinguer dal giorno del rapimento di Moro fino all’11 giugno 1984, quando il leader del Pci morì in seguito ad un malore accusato 4 giorni prima
E con lui se ne va un frammento di memoria importante di storia italiana, aveva solo 76 anni. Negli ultimi anni, vivendo il suo riserbo, Roberto aveva iniziato a salire persino sui palcoscenici per ricordare: fino all’ultimo momento utile ha raccontato da testimone la sua esperienza al fianco del segretario del Pci negli anni di piombo, una pagina incredibile di cui era stato - come vedremo - un testimone privilegiato.
Nel 2022 ho avuto la fortuna di girare insieme a Bertuzzi da un capo all’altro dell’Italia, di ascoltarlo parlare, sempre a braccio: scuole, piazze, teatri. Roberto era un personaggio incredibile: un romano verace, ironico, sornione, due volte orfano (la seconda perché strappato anche a una madre adottiva), una infanzia sperperata dentro collegi repressivi, una giovinezza pasoliniana a metà tra Cinecittà (come lavoratore del cinema) e le borgate romane di terra e fango. Roberto raccontava di essere nato ribelle, e di aver trovato la sua maturità solo grazie alla politica, di essere stato vaccinato nel partito di massa “rispetto a ogni ribellismo velleitario”. Aveva neanche trent’anni quando nel 1978, dopo essere diventato fabbro, era stato assunto come operaio specializzato alla Voxson. Lui raccontava il suo involontario ingresso nella grande storia così: «Il giorno in cui rapirono Moro ricevetti una chiamata in consiglio di fabbrica: “Ti devi licenziare oggi stesso, c’è una emergenza, abbiamo bisogno di compagni affidabili a Botteghe Oscure”. «Non ci pensai nemmeno un secondo» - spiegava Roberto - «sapevamo che fra terroristi rossi e neri la democrazia era in pericolo». Fu così che posata la saldatrice si ritrovò a maneggiare pistole e fucili a pompa, a fare corsi di guida veloce, ad interpretare manuali americani sulla tutela dei leader trafugati agli uomini di Nixon. Spiegava:non c’erano telefonini, si girava con tre gettoni legati con il nastro adesivo e un biglietto in tasca: ti squillava il telefono e una voce che non conoscevi ti diceva: “Dormi fuori casa”. Allora uscivi, aprivi il biglietto dove c’erano solo tre numeri, mettevi i gettoni in un telefonino pubblico, facevi quei numeri e dicevi: “Dormi fuori casa”. Li chiamavamo allarme-golpe, e non erano infrequenti nel tempo in cui in Europa c’erano tre dittature fasciste e in giro molto che avrebbero volentieri cancellato la nostra Costituzione».
E ancora: «Gli anni che ho passato nella scorta di Berlinguer sono stati i più belli della mia vita. Adesso, quando mi chiedono come era lui, posso dare una risposta semplice: era un leader d’acciaio, e allo stesso tempo una persona gentile. Lavorava nel disinteresse più assoluto, senza risparmiarsi mai, ci saremmo tutti uccisi per salvare la sua vita, senza pensarci neanche un secondo».
In questa parte del racconto gli uomini della Scorta - tutti di estrazione popolare come Bertuzzi - convivono giorno e notte con il leader di estrazione alto-borghese per proteggerlo dalle minacce. Una sera sventano un possibile sequestro delle Br perché il capo della Scorta, Alberto Menichelli, si insospettisce per un finto cantiere sotto casa del segretario.
Oggi, in tempi di populismo, si discute molto sul conflitto latente tra popolo ed élites, su come dovrebbe essere il loro rapporto: in quel tempo il problema era risolto alla radice perché popolo ed élites viaggiavano sulla stessa macchina.
Gli anni di piombo furono il test più duro per quel gruppo di uomini, fossimo in America le loro memorie sarebbero già diventate un film: combattere da un lato contro il terrorismo nero, dall’altro contro il terrorismo rosso, contro gli estremisti di ogni colore, contro gli stragisti che mettevano le bombe, contro gli autonomi che volevano mettere a ferro e fuoco Bologna, e quelli che cacciarono a sassate Luciano Lama dall’università di Roma. Quel giorno Roberto c’era: «Eravamo andati puliti, cioè disarmati, fu un martirio, ci presero a bastonate, ci bombardarono di sanpietrini».
Ma il peggio non era questo. Roberto faceva venire gli occhi lucidi a tutti raccontando un trauma irrimediabile: «Quello di ritrovarmi con Berlinguer a Padova, in quel giorno terribile nel 1984 in cui ci ha lasciato, dopo essere stato colpito da un ictus, è stato il dolore più grande della mia vita. Lo avevamo protetto da tutto - aggiungeva Bertuzzi - ma era impossibile proteggerlo da un nemico invisibile e spietato: la malattia». Poi aggiungeva: «Oggi in Italia abbiamo un disperato bisogno di leader come lui, disposti a sacrificare il consenso per difendere lo Stato e la Repubblica. Il giorno in cui rapirono Aldo Moro, Berlinguer, che pure lo stimava incredibilmente, disse ai suoi figli: “Se dovesse accadere a me, di essere sequestrato, non trattate. E se anche dovessi essere io, a chiedervelo, ricordatevi che non voglio nessun negoziato con i terroristi”». C’è in questo rigore estremo, qualcosa che oggi porta persino Fratelli d’Italia ad applaudire il suo nome in segno di rispetto (è avvenuto proprio a Pescara).
Bertuzzi concludeva il suo racconto così: «Negli anni di piombo abbiamo difeso Berlinguer dall’odio dei terroristi, negli anni Ottanta dall’amore che suscitava, dai tanti che gli saltavano addosso per baciarlo e abbracciarlo. I suoi avversari dicevano che non aveva una linea, che era un leader triste, che era un moralista: invece ha portato il Pci al massimo storico e a superare la Democrazia cristiana».
Questo raccontava un orfano, fabbro, figlio di nessuno, che nel tempo del ferro e del fuoco si trovò testimone nei giorni più difficili della Repubblica. Fino all’ultimo giorno in cui ha potuto farlo. Il ragazzo della scorta di Berlinguer.