Il commento sulla nuova linea di Bezos: Washington Flop

E pensare che nel 2013, dopo aver acquistato il quotidiano per 250 milioni di dollari, disse che sarebbe stato un editore “hands off”, cioè discreto, che non avrebbe influenzato la linea del giornale
WASHINGTON. “Scriveremo ogni giorno in sostegno di due pilastri: libertà individuali e libero mercato”. Questo il messaggio inviato ieri da Jeff Bezos ai giornalisti del Washington Post, lo storico quotidiano statunitense che il patron di Amazon ha acquistato nel 2013. L’imposizione della nuova linea ha già fatto cadere una testa importante: quella di David Shipley, capo della della sezione editoriali dal 2022. Nella mail con cui Bezos ha informato la redazione del nuovo corso del giornale (successivamente ripostata su X) Bezos ha parlato esplicitamente dell’uscita di scena di Shipley: “Ho affidato a David Shipley, che ammiro molto, la guida di questo nuovo capitolo. Dopo una lunga riflessione, David ha deciso di fare un passo indietro. Rispetto la sua decisione, gli avevo chiesto di essere convinto al 100% del cambiamento o di andarsene”.
Insomma, di fronte alla scelta tra rendere la pagina degli editoriali, quella che dovrebbe essere il foro del pluralismo delle opinioni, un megafono delle idee del governo Trump-Musk, o di andarsene, Shipley ha optato per la seconda. E pensare che nel 2013 Bezos, dopo aver acquistato il Washington Post per 250 milioni di dollari, disse che sarebbe stato un editore “hands off”, cioè discreto, che non avrebbe influenzato la linea del giornale. Poi la rincorsa di Trump al secondo mandato ha cambiato tutto. Si era già capito durante la scorsa campagna elettorale, quando bloccò l’editoriale di endorsement al candidato democratico Kamala Harris. La fine di una tradizione che è stata interpretata come un tradimento dai lettori del Post, che in 250mila hanno disdetto l’abbonamento. Un brutto colpo per il giornale, ma non per il suo editore e il suo fatturato a sette zeri.
Ma in quel caso Shipley non si era dimesso. E non lo aveva fatto neanche quando Bezos aveva bloccato la pubblicazione della vignetta satirica della vincitrice del premio Pulitzer Ann Telnaes che lo raffigurava insieme a Zuckerberg e ad altri miliardari del web inginocchiati, con sacchi di banconote in mano, davanti ad una gigantesca figura di Trump (quanto ci aveva visto lungo). A causa della censura Telnaes, che al Post lavorava ininterrottamente dal 2008, si dimise e rese pubblica la storia. Shipley, invece, si dimostrò rispettoso nei confronti del suo editore, assumendosi anche le responsabilità di quella decisione: “Non tutti i giudizi editoriali sono il riflesso di una forza maligna. La mia decisione è stata guidata dal fatto che avevamo appena pubblicato una rubrica sullo stesso argomento della vignetta e avevamo già programmato un’altra rubrica, questa volta una satira, per la pubblicazione. L’unico pregiudizio era contro la ripetizione”.Chissà se, col senno di poi, difenderebbe quella scelta nello stesso modo.
Insomma, il terremoto Trump continua a produrre i suoi effetti. L’ultimo è la faglia, che non si rimarginerà facilmente, all’interno della redazione di un quotidiano che ha fatto la storia del giornalismo americano. Dai Pentagon Papers al Watergate, il Post si è sempre battuto per svelare all’opinione pubblica gli inganni e gli abusi del potere, ricoprendo a pieno il ruolo, fondamentale nelle forme di governo liberali, di “cane da guardia” della democrazia. Lo stesso cane a cui oggi si vuole mettere la museruola.
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