Il perdono impossibile di Liliana Segre
«Non posso dire di non provare rancore verso l'uomo che quel giorno ci rimandò in Italia. Mi buttai a terra come una disperata, abbracciai le sue gambe implorandolo di non mandarci via. Lui ci fece riaccompagnare dalle guardie con la baionetta puntata alle spalle. Ricordo che sghignazzavano». Sghignazzavano quelli che, il 7 dicembre del 1943, risospingevano Liliana Segre e suo padre Alberto in Italia, al di là del confine della Svizzera, la nazione dove avevano cercato riparo dalle persecuzioni razziali in corso nel loro Paese contro gli ebrei. Qualche settimana dopo, Alberto morì nelle camere a gas del campo di sterminio di Auschwitz, dove la 13enne Liliana rimase a lungo prigioniera. Liliana Segre, oggi senatrice a vita della Repubblica, lo ha ricordato, nei giorni scorsi, nell'Università di Lugano. Per conto della Svizzera, il consigliere di Stato del Canton Ticino, Manuele Bertoli, ha chiesto scusa a Liliana. La Segre ha accettato le scuse. Le è stato chiesto se abbia perdonato quegli uomini. No è stata la sua risposta: «Non perdono e non dimentico chi mi ha fatto del male. Non ho nemmeno voluto sapere i loro nomi». Nell'ebraismo c’è chi sostiene che non si debba più pronunciare neanche il nome di chi si comporta male. Liliana Segre ne rifiuta persino la memoria, in un silenzio che è impossibile non condividere.
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