Perché Junior Cally ci scandalizza più di Jim Morrison

24 Gennaio 2020

Il caso deil trapper mascherato con oltre 380mila follower su Instagram e milioni di visualizzazioni su YouTube: la sua presenza al 70° Festival di Sanremo divide l’opinione pubblica

Scoppia il caso Junior Cally, il trapper mascherato con oltre 380mila follower su Instagram e milioni di visualizzazioni su YouTube, la cui presenza al 70° Festival di Sanremo sta dividendo l’opinione pubblica.

Sotto accusa alcuni suoi brani inneggianti al femminicidio, in particolare Strega del 2017, che milioni di ragazzini conoscono a memoria. Un tripudio di sesso e droga con poco rock’n’ roll addizionato alla svalorizzazione della figura della donna e all’esaltazione dei soldi, e caratterizzato dal body shaming (derisione del corpo) in una sequela di parole tinte di volgarità e violenza: questi i temi fondanti del trap (da trap-house, luogo di spaccio), genere musicale sorto negli anni ’90, negli Stati Uniti, come copertura di attività criminose. I malavitosi si fingevano artisti per giustificare introiti illegali di denaro. Un messaggio negativo e fuorviante che crea stereotipi nei giovani e impedisce loro un’analisi critica della propria realtà. Una sottocultura di quello che fu invece il rap, nato come strumento di lotta contro il potere ed ispirato da figure di grande valenza simbolica come Martin Luther King e Malcom X, e nel quale una moltitudine di giovani che viveva ai margini delle metropoli trovò una sorta di riscatto sociale contro discriminazioni e ingiustizie. Un genere peraltro assente di contenuti, tecnicamente povero e facile da emulare, che conduce e imprigiona i giovani in un luogo ambiguo, la trap-house, appunto.

Una presenza quindi scomoda, quella dell’artista, in una vetrina musicale tanto popolare e per di più trasmessa dalla TV di Stato, che giunge all’indomani della polemica sul conduttore Amadeus accusato di sessismo ma, soprattutto, alla luce di uno dei fenomeni più tragici e dilaganti dell’epoca attuale, quello della violenza sulle donne, tanto che Marcello Foa, il presidente Rai, ha definito “eticamente inaccettabile” l’ammissione dell’artista alla popolare kermesse italiana.

La vicenda nasce esattamente a distanza di un anno dal polverone mediatico sollevato dall’arrivo di Achille Lauro sul palco dell’Ariston, e del suo brano Rolls Royce chiaramente glorificante l’uso di metanfetamine. Eppure anche i giovani degli anni ’70 hanno imparato a memoria i testi di Brown Sugar dei Rolling Stones, di Cocaine di Eric Clapton, di Purple Haize di Jimi Hendrix, o The end in cui Jim Morrison incitava all’uccisione del padre e allo stupro della madre, per citarne alcuni. Sex and drugs and rock and roll, is all my brain and body need cantava Ian Dury nel 1977. Una musica altamente intrisa di eccessi e contaminata dall’uso massiccio di droghe che segnarono tristemente il destino (e il declino) di parecchie rockstar. E le generazioni più recenti hanno cantato Bollicine o Colpa d’Alfredo di Vasco Rossi, La mia signorina di Neffa, Ohi Maria degli Articolo 31, e sono innumerevoli gli artisti che nel corso degli anni e delle hit hanno esaltato il sesso e l'uso di droghe attraverso le loro canzoni e il loro comportamento. Perché allora ci scandalizziamo? Non siamo diventati improvvisamente un Paese di bigotti, questo è certo. E bigotto non è neppure Red Ronnie, il popolare giornalista musicale che tra i primi si è infuriato per la partecipazione sanremese del trapper, definendola “un’istigazione alla violenza”.

Di eccessi e parolacce ridondavano anche i testi di brani rock ascoltati dalle vecchie generazioni, ma in quella trasgressione c’erano la famiglia, la scuola, le istituzioni. C’era un’educazione ai valori che faceva da filtro impedendo l’assorbimento di concetti devianti, oltre ad una rivoluzione giovanile senza precedenti che si impegnò, nonostante tutto, a trasformare il mondo in un posto migliore. Rivoluzione che oggi ha ceduto il posto ad una sorta di rassegnazione nichilista. Gli stravolgimenti socio-culturali che dalla fine degli anni ‘70 ad oggi hanno attraversato le esistenze di migliaia di giovani, a partire dal modo di fare Comunicazione (basta confrontare la telefonata dall’apparecchio analogico di casa con la moderna connessione digitale globale), alla riorganizzazione della struttura familiare, alla scomparsa dei confini generazionali causato da una tendenza al giovanilismo, hanno generato un approccio sociale quasi esclusivamente individualista che premia una maggiore libertà di ciascuno, certo, ma anche un interesse prevalentemente personale dai connotati non sempre positivi. L’assenza di modelli pedagogici di riferimento, inoltre, unito al parallelo sviluppo dell’Internet delle cose da cui i giovani dipendono, hanno alimentato quella che viene denominata bolla narcisistica nella quale il giovane vive la sua illusoria esistenza, iperconnesso con il mondo eppure isolato dall’utilizzo massiccio dei più disparati digital devices, e anestetizzato da contenuti distanti anni luce dalla realtà che non aiutano a gestire i conflitti naturali della crescita ma trovano sfogo in comportamenti autolesionisti e nel bullismo, balzati tragicamente sulle pagine di cronaca degli ultimi anni. È chiaro, quindi, che una buona parte dei giovani del terzo millennio è impreparata ad affrontare questo tipo di messaggio che arriva dallo Star System e da strategie di marketing che fanno la fortuna di alcuni ma che forgiano pericolosamente i ‘non valori’ dei nostri adolescenti. Poiché se esiste uno strumento potente in grado di condizionare e aggregare ogni nuova generazione, è certamente la musica, un linguaggio universale mediante cui il giovane si identifica e nel quale trova un ideale in cui rispecchiarsi. Attraverso note e parole, infatti, i ragazzi metabolizzano disagi esistenziali, delusioni e frustrazioni. Va detto che Junior Cally ha comunque respinto la polemica bollandola come politica.

A pensarci bene, Platone affermava che “non si introducono mai cambiamenti nei modi della musica, senza che se ne introducano nelle più importanti leggi dello stato”. Forse, chi ci governa dovrebbe porsi qualche domanda, se non più di una. A questo punto il famoso passo indietro, insieme ad un mea culpa collettivo, dovremmo farlo un po’ tutti: istituzioni in primis seguite da genitori, insegnanti, discografici, giornalisti. È urgente tornare ad una ridefinizione del ruolo adulto/giovane e ad una severa separazione del bene dal male, oltre a riadattare le strategie del marketing alla fluidità (e fragilità) dei cambiamenti educativi. Con l’auspicio di una nuova musica che abbia le potenzialità per aiutare i ragazzi a creare un futuro su misura, con le stesse certezze e le stesse aspettative che hanno fatto crescere le generazioni precedenti e che noi, figli di ieri, stiamo negando ai figli di oggi.

*Giornalista e scrittrice