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20 MARZO
Oggi, ma nel 1986, a Voghera, in provincia di Pavia, nel supercarcere, Michele Sindona veniva avvelenato con una tazzina di caffè al cianuro di potassio. Morirà due giorni dopo, il 22 marzo, a 66 anni, nell’ospedale cittadino, senza riprendersi dal coma, dopo 56 ore di agonia (nella foto, particolare, il cadavere mentre verrà portato nella camera mortuaria). L’omicidio/suicidio del faccendiere originario di Patti, in quel di Messina, classe 1920, rimarrà uno dei misteri più fumosi del Belpaese.
La vittima era ritenuta il mandante dell’omicidio del liquidatore del Banco Ambrosiano di Milano, l’avvocato Giorgio Ambrosoli, fatto uccidere, nel capoluogo lombardo, l’11 luglio 1979. E per questo Sindona, il 18 marzo 1986, due giorni prima del decesso, era stato condannato all’ergastolo. Era anche stato coinvolto nella morte sospetta del bancarottiere Roberto Calvi, avvenuta il 18 giugno 1982, a Londra. Aveva sulle spalle anche una serie di traffici internazionali, come il crack della Franklin national bank di New York, e non limpidi rapporti d’affari con la famiglia malavitosa dell’italoamericano John Gambino. Il veleno era verosimilmente contenuto in una bustina di zucchero sigillata. A preparare la bevanda sarebbe stato lo stesso detenuto, nel bagno della sua cella d’isolamento, dove si trovava dal 25 settembre 1984, fuori dall’occhio delle telecamere a circuito chiuso. Dopo essere stramazzato sulla sua branda gridava, al secondino Antonio Simula, proprio di essere stato avvelenato. Secondo alcuni studiosi del caso, probabilmente credeva che quella dose sarebbe stata sufficiente a stordirlo e a farlo spostare dal settore di rigore all’infermeria, per tentare poi meno difficoltosamente la fuga.
L’accaduto riportava alla mente l'oscura fine di Gaspare Pisciotta, luogotenente del bandito di Montelepre Salvatore Giuliano, tolto di mezzo, il 9 febbraio 1954, a Palermo, nel carcere dell’Ucciardone, con un caffè alla stricnina, in modo da non potergli consentire di testimoniare. Tra le ipotesi che verranno prese in considerazione sull’uscita di scena definitiva di Sindona vi sarà anche quella, benché non supportata da prove, che vedrà il politico democristiano di lungo corso Giulio Andreotti quale organizzatore della soppressione. Sindona, infatti, nel processo d’appello, avrebbe potuto rivelare retroscena scottanti di collusione tra mafia, esponenti di spicco del governo e la loggia massonica deviata Propaganda 2, capeggiata da Licio Gelli.
Il 23 luglio 1987 la magistratura di Pavia archivierà la morte di Sindona, sposando ufficialmente l’ipotesi dell’autoeliminazione. Dandosi pace eterna, quello che era stato ritenuto il banchiere italiano più potente del mondo, già “salvatore della Lira”, secondo la sibillina definizione andreottiana, aveva attuato una sorta di vendetta, facendo cadere l’accusa dell’omicidio contro coloro che -dopo averne ricevuto favori politici ed economici- lo avevano abbandonato. Lo avevano tradito e lasciato al suo non facile destino giudiziario, voltandogli le spalle: senza riuscire ad evitargli il carcere a vita.