PALLA AL CENTRO
Juve, gli errori di presunzione nascono da lontano
Se l’Atalanta non farà l’impresa a Madrid, non ci sarà nemmeno una squadra italiana ai quarti di finale della Champions League. La serie A non vale un posto tra le prime otto in Europa e questo la dice lunga sul valore del movimento italico. Non a caso in vetta alla classifica c’è l’Inter che è uscita di scena a dicembre: ultima del girone a quattro. Non un posto agli ottavi, nemmeno in Europa League.
Fa discutere l’eliminazione della Juve. Per il secondo anno di fila i bianconeri escono agli ottavi e maledicono il sospiro di sollievo al momento del sorteggio: l’anno scorso il Lione e questa volta il Porto sembravano avversari abbordabili e, invece, hanno fatto versare lacrime amare. La Juve sta raccogliendo quanto seminato. I problemi nascono a monte, quando Agnelli e il suo management decidono di cambiare allenatore, stufi di Allegri e del suo calcio. Ritenevano che un altro tipo di gioco potesse diventare un valore aggiunto e che comunque dopo cinque anni Max avesse fatto il suo tempo. Erano i tempi in cui si chiedeva il calcio spettacolo. Un gioco più europeo. Una manovra corale che esaltasse le individualità. Una corrente di pensiero propagata dagli opinionisti nelle televisioni. E la Juve, dopo l’eliminazione contro l’Ajax, decide di imboccare un’altra strada. Quasi stufa di dominare in Italia e di essere competitiva in Europa. Serve di più, il pensiero della dirigenza. Ed ecco che viene scelto Maurizio Sarri, reduce dal calcio spettacolo propugnato a Napoli e dall’Europa League vinta con il Chelsea. Una sterzata a livello filosofico. Un radicale cambio di rotta. Ma non c’è stata la scintilla con il gruppo. Vuoi per i modi ruvidi di Sarri, vuoi perché i bianconeri hanno ben altra mentalità. Non c’è chimica. Due corpi avulsi l’uno dall’altro. Si sopportano a vicenda. Lo scudetto arriva per un tacito accordo di non belligeranza tra le parti. Ognuno rinuncia a una parte del proprio credo per arrivare al traguardo. Ma l’eliminazione agli ottavi dell’agosto scorso è la palla la balzo che Andrea Agnelli coglie per cambiare. Anche perché Sarri non viene mai digerito fino in fondo dalla tifoseria per i suoi trascorsi partenopei. Non mette in discussione la filosofia, ma il tecnico. E così lo sacrifica. In quel momento le panchine sono tutte occupate, i migliori allenatori già impegnati. E allora il presidente si fa convincere dalle tesi di Andrea Pirlo che nel frattempo diventa amico di famiglia, per via delle frequentazioni delle rispettive signore.
Pirlo è fresco di diploma da Coverciano. Parla di calcio coinvolgente e dominante. Pensa Agnelli che possa trovare l’aiuto della squadra e il sostegno della dirigenza. Così è. Ma c’è presunzione nel dare la prima squadra al tecnico assunto per l’under 23. Tanta. Sì, perché Agnelli pensa che la Juve sia così forte da poter metabolizzare il gap che un allenatore alla prima esperienza porta in dote. Si sprecano i paragoni con l’investitura del Barcellona con Guardiola, a suo tempo. Errore madornale. Tanto più che il calendario è compresso, non c’è tempo per fare preparazione, conoscersi e metabolizzare una nuova idea di gioco. Subito partite ufficiali in cui cominciano a emergere i problemi. Perché un conto è la teoria e un conto è la pratica. Pirlo sbaglia come tutti i tecnici alle prime armi che si fanno le ossa nelle giovanili o nelle categorie inferiori. Ma a pagare dazio questa volta è la Juve. In campionato la differenza tra la Juve e l’Inter, tanto per fare un esempio, è quella esistente tra le due panchine: Conte è un manico collaudato che raccoglie i frutti anche del lavoro iniziato nella passata stagione, Pirlo parte con un’idea e poi la cambia. Non si vede mai una buona Juve, una squadra che possa sfruttare il suo potenziale per intero. Mai. Ogni tanto qualche buona prestazione, più che altro di carattere, frutto della reazione d’orgoglio del gruppo più che di una precisa identità. Balbetta, perde sicurezza in difesa e diventa Ronaldo-dipendente.
In questo contesto quindi l’eliminazione è solo una logica conseguenza di un progetto che non ha i piedi per camminare. Pirlo magari diventerà anche un grande allenatore, ma oggi non lo è. Forse, non è nemmeno un allenatore per il semplice motivo che non ha avuto modo di sbagliare, di verificare sul campo le sue teorie di gioco. O magari di adattarlo alle caratteristiche del gruppo a disposizione. E poi c’è il discorso Ronaldo, arrivato a contare 36 primavere. E’ stato preso per diventare un valore aggiunto in Champions con la presunzione di avere già una squadra pronta per diventare una big in Europa. Il portoghese nelle intenzioni doveva far compiere un salto di qualità per arrivare ad alzare la coppa dalle grandi orecchie. Nelle prime due edizioni della Champions giocate in bianconero CR7 il suo l’ha fatto. Ha tenuto fede alle premesse. A mancare, però, è stato il resto della squadra.
Fuori ai quarti e agli ottavi come una qualsiasi altra formazione di buon livello. Questa volta è mancato all’appello proprio il portoghese. Non solo non è stato un valore aggiunto, ma martedì sera con il Porto è stato una palla la piede. Così come all’andata. E adesso? Il processo di cambiamento e ringiovanimento della Juve, già iniziato, proseguirà. In estate ci saranno delle variazioni in organico. E Pirlo? Si sta bruciando un po’ alla volta. Resta la coppa Italia per salvare la stagione. E se la Juve non farà un gran finale di stagione si scotterà tutto intero. Facendo la fine di Ciro Ferrara nel 2010. La morale? Beh, la Juve non ha apprezzato fino in fondo il valore dei suoi risultati. Pensava di valere di più. E chi troppo vuole nulla stringe.