Ma perché continuiamo a guardare Sanremo?
Tutti lo criticano, ma tutti lo guardano. Sanremo, alla vigilia, in teoria non avrebbe dovuto guardarlo nessuno. L’universo femminile contro Amadeus e la presentazione sessista delle sue dieci donne (belle, sexy, stupende, ok… ma brave no?). La destra contro Rula Jebreal, l’immigrata ingrata. Tutta l’Italia contro l’uomo in maschera, Junior Cally, col suo video pro violenza attira-clic. E invece come al solito, anzi più del solito, davanti al piccolo schermo una grande folla (52.2% di share la prima serata, poi 53,5 e 54,3 in crescendo); e quelli che non c’erano, erano su Twitter e Facebook a sbirciare i commenti, facendo finta di far altro per darsi un tono.
È più forte di noi. Un rito collettivo, un po’ come per i mondiali di calcio, quando anche chi non ha mai capito cos’è un fuorigioco è lì, in formazione sul divano, a chiosare sulle sostituzioni e criticare il ct. Sanremo unisce tutti, e dalle pareti sottili degli appartamenti si sentono le musiche che si rincorrono, con giusto quell’attimo di ritardo nel suono, a testimoniare una visione condivisa che si ripete, tra alti e bassi, da 70 anni. Sanremo accoglie gli entusiasti e gli snob, i giovani fan dell’Achille Lauro desnudo e gli agée commossi per la rimpatriata dei Ricchi e Poveri, nordici e meridionali.
E non si sta neppure lì per le canzoni, perché tanto non vince mai quella che vogliamo noi e la giuria demoscopica, come sempre, non capirà un piffero delle classifiche reali. In realtà sono tutti lì ad aspettare la gaffe, la piccola tragedia, l’inciampo di Albano, il seno di Patsy Kensit che scappa dal vestito, la farfallina inguinale di Belen, il disoccupato che si butta dal palchetto, la stecca piena di lacrime di Tiziano Ferro. Il divertimento è commentare: che elegante quel vestito, quanto botox su quegli zigomi, che retorico questo monologo, e che noia questa canzone. Postarlo in tempo reale su ogni piattaforma, aspettando i like e compiacersi di quanto siamo originali e spiritosi. E riconoscere le medesime occhiaie nei vicini di cappuccino, per sentirsi, almeno una volta l'anno, parte di una specie di Italia unita.
Poi, ci potete scommettere, le canticchieremo tutti, quelle canzoni lì; quelle strofe criticate con convinzione per cinque giorni, quei giri di note che ci si piantano nel cervello in un loop infinito. Proprio come, dopo anni di altezzoso disdegno, mercoledì tutta l'Italia era in piedi a cantare "Sarà perché ti amo", nuovo inno nazionale per una sera. Anche qualcuno di questi ritornelli rimarrà con noi negli anni e quando le risentiremo, magari, ci commuoveremo e penseremo, però… che ricordi.