La messa di Natale a Collemaggio (foto Raniero Pizzi)

TERREMOTO

Tra i fedeli nella notte della Speranza

Il più contento è lui, don Nunzio Spinelli, il rettore della basilica di Collemaggio. Manca più di un'ora all'inizio della messa di mezzanotte ma è già preso a fare gli onori di casa. La notte del sei aprile 2009 fu il primo a entrare nel tempio simbolo della storia dell'Aquila. Dove c'era l'altare vide un enorme mucchio di macerie. Quando gli occhi ebbero il coraggio di guardare verso l'alto osservò l'enorme buco da cui filtrava la fioca luce della luna che sbianchettava l'orrore. »Collemaggio è finita» pensò. «Collemaggio è nata di nuovo» pensa oggi vedendo la basilica riempirsi di gente. Mentre si rinnova il fascino della natività, qui su questo colle dove Pietro del Morrone decise di costruire la chiesa che nell'agosto del 1294 fu la scena della sua incoronazione a Papa, gli aquilani arrivano in silenzio, in maniera ordinata, quasi in punta di piedi.

Abbagliati da un capolavoro che forse solo oggi scoprono in tutta la sua maestosità e bellezza. Alla fine saranno in tremila, forse più. «Abbiamo distribuito 2500 ostie» puntualizza don Nunzio «per questi giorni di festa ne ho ordinate seimila e sono convinto che se ne andranno tutte». Il freddo della notte punge anche all'interno. Ci si guarda un po' a destra, un po' a sinistra e non solo per ammirare i restauri pagati dall'Eni e conclusi in tempi record ma anche per capire dove sia mai il riscaldamento. E' ancora il rettore che rassicura i suoi “ospiti”. «Toccate il banco davanti a voi, sentite è caldo». E in effetti il tepore accarezza il legno e si diffonde discreto e quasi impercettibile. Ma il freddo non conta. Il capoluogo stanotte è la Betlemme d'Abruzzo. Il luogo dove cambia la storia e la luce della speranza scaccia il buio dei giorni da tregenda. Celestino V, il Papa che donò all'Aquila la Perdonanza, è nella sua teca ai piedi dell'altare. Anche lui discreto, la gente quasi non ci fa caso. E' lì da secoli, è lui il vero padrone di casa, oltre ogni incubo, oltre ogni catastrofe. Sfollato e disperso per anni. Rifugiato in casa di “amici e conoscenti” ora ha ritrovato il posto nella sua dimora di sempre così come tanti aquilani che se pur a fatica e fra mille ritardi, polemiche sterili, contraddizioni e speculazioni, stanno tornando nei luoghi delle loro memorie bambine. Mentre si avvicina la mezzanotte la frenesia cresce. Il coro si prepara a dare un tocco ancora più solenne alla celebrazione. Per tutto il rito risuoneranno forte e chiaro le trombe segno di gioia e letizia. Anche l'arcivescovo Petrocchi è giunto con largo anticipo. Si vede che ha tanta voglia di abbracciare gli aquilani, i suoi fedeli. Lo fa prima della messa e dopo, quando la processione del rientro si trasforma per il presule in un bagno di folla. L'omelia tocca i temi del Natale, solo una frase _ quasi buttata lì _ su questa notte Santa celebrata nella basilica appena ritrovata. Poche parole. A Petrocchi non sfugge di essere partecipe di un evento storico. «Questa sera con noi ci siete voi aquilani, tanti, tantissimi, ma ce ne sono altri che avrebbero voluto essere con noi e non hanno potuto, ma siatene certi, adesso, qui, ci sono anche tutti quegli aquilani che nei secoli passati hanno pregato in questa basilica». Un abbraccio con cui idealmente centinaia di migliaia di persone di ieri e di oggi stringono questo luogo nel quale si respira santità, spiritualità, tradizione, passato, futuro. Inizia la messa. E' mezzanotte appena scoccata. I microfoni della basilica fanno i capricci. Qualcuno segnala il disguido con gesti da mimo. Quando si prova una macchina nuova può capitare di sbagliare a girare una manopola. Tutto si risolve in pochi minuti e la voce dell'arcivescovo arriva forte e chiara fra le navate maestose. E' Petrocchi che, mentre sta per concludere l'omelia, mi risveglia dolori mai sopiti. Ricorda i 309 martiri (li definisce proprio così) del terremoto dell'Aquila e tutti gli altri dei terremoti successivi, quelli dell'Emilia e del Centro Italia. Ed è in quel momento che la mente corre al 7 febbraio 2009, due mesi prima della scossa che ha cambiato le vite degli aquilani. I miei genitori festeggiavano i 50 anni di matrimonio. Quella domenica mattina nella basilica di Collemaggio non c'era quasi nessuno. Il coro riempiva con musica e parole gli enormi spazi della chiesa, sui banchi una decina di persone fra cui tutta la mia famiglia. Di quel giorno restano le foto, la cortesia di don Nunzio, le belle parole che pronunciò, il fascino di un luogo eterno. Poi tutto finì. Partecipare alla messa di mezzanotte è voler ricominciare da lì, dai ricordi belli per tuffarsi nel mistero, chiudere gli occhi e immaginare abbracci, corse sui prati, condivisione di gesti semplici, cenone intorno a un tavolo con il presepe in un angolo, le luci intermittenti dell'albero che “macchiano” a flash i volti, il vocio ininterrotto di chi si vuole bene. Lo scambio del segno della pace mi riporta alla realtà. Mi giro e vedo quella marea umana pronta a ricevere il Corpo di Cristo, come ci insegna la liturgia cattolica. Tutto si svolge con ordine, cinque preti più l'arcivescovo offrono le particole mentre il coro continua a distribuire emozioni. Poche le autorità, in prima fila il vicesindaco Guido Quintino Liris e l'assessore Sabrina Di Cosimo. « La messa è finita, andate in pace». La basilica si svuota, pian piano. Senza fretta. E' quasi l'una e trenta, fuori il freddo è pungente. Ma nessuno si lamenta. Stasera è stata la storia. Ora bisogna costruire un presente e un futuro migliori. E' la sfida dei tempi. Per chi ha il dolore nel cuore cambia poco. Ma allontana dal baratro. Almeno un po'.

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