LA SENTENZA
«Bussi, quasi 2 milioni di tonnellate di terreno contaminato»
Ecco le frasi shock contenute nella sentenza di condanna per la maxi discarica: un disastro ambientale in un'area ricchissima di acqua, la storia di una risorsa compromessa
L’AQUILA. Un disastro ambientale «in un’area ricchissima di acqua» come l’incrocio tra i fiumi Pescara e Tirino a Bussi. Un disastro «prevedibile». Un disastro annunciato fin dal 1971 e poi anche sottovalutato, come aveva detto inizialmente la procura di Pescara nel processo di primo grado e, poi, nel secondo grado, anche l’avvocato generale Romolo Como (foto). Le 251 pagine delle motivazioni della sentenza di condanna per la mega discarica di Bussi raccontano la storia di un inquinamento senza pari: un’attività di contaminazione definita «straordinariamente grave e complessa». Che si può misurare nelle stime dell’Ispra: 1.640.300 tonnellate di terreno contaminato con una spesa di oltre 1,3 miliardi di euro per la riparazione dei danni.
«Altissimo e prevedibile era il rischio di contaminazione delle falde sottostanti», c’è scritto così sulla sentenza. E secondo i giudici della Corte d’Assise d’Appello dell’Aquila, presieduta da Luigi Catelli, quel rischio era stato «segnalato» già in quegli stessi anni «dalla stessa azienda» nel corso di una riunione del 9-10 ottobre 1971 e dall’allora assessore pescarese Giovanni Contratti «in una lettera nella quale evidenziava la necessità del dissotterramento dei rifiuti per evitare l’inquinamento del terreno e della falda freatica». Ma non è avvenuto: i rifiuti sono rimasti in località Tre Monti, sotto i piloni dell’A25. E i giudici scrivono: «I rifiuti sono stati direttamente stoccati sul suolo senza alcun idoneo sistema di impermeabilizzazione o copertura tanto da essere tutt’oggi commisti con il terreno». È la descrizione del terreno diventato rosso. E a Bussi non era un mistero: lo sapevano gli imputati ma, per i giudici, hanno sottovalutato la portata dell’inquinamento «pure in presenza di studi interni» che avevano rivelavato «lo stato di contaminazione della falda da sostanze clorurate», studi risalenti al 1992, «e non ne hanno doverosamente approfondito le cause e ne hanno successivamente ridimensionato la portata». È nato così un disastro ambientale che non ha fatto sconti, consistito «nella contaminazione estesa e diffusa di tutte le matrici ambientali, acque superficiali e profonde, suolo e sottosuolo». Secondo i giudici, «è emerso con chiarezza dalle indagini del corpo forestale, dagli accertamenti dell’Arta e dalle analisi dei consulenti tecnici che la contaminazione delle matrici ambientali è certamente riconducibile alla produzione di sostanze chimiche svolta nel sito industriale che ha determinato la dispersione e l’interramento di plurime sostanze tossiche, alcune delle quali anche di natura cancerogena». E poi ci sono anche gli studi dell’Istituto superiore di sanità sul fenomeno della contaminazione delle acque sul pericolo per la salute umana «che hanno evidenziato come la qualità della risorsa idrica di origine sia stata significativamente compromessa e ciò per effetto dello svolgersi di attività industriali di straordinario impatto ambientale in aree ad alto rischio per la falda acquifera, interessate da incontrollate prolungate attività di versamento di rifiuti, della diffusione molteplicità delle sorgenti inquinanti».
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«Altissimo e prevedibile era il rischio di contaminazione delle falde sottostanti», c’è scritto così sulla sentenza. E secondo i giudici della Corte d’Assise d’Appello dell’Aquila, presieduta da Luigi Catelli, quel rischio era stato «segnalato» già in quegli stessi anni «dalla stessa azienda» nel corso di una riunione del 9-10 ottobre 1971 e dall’allora assessore pescarese Giovanni Contratti «in una lettera nella quale evidenziava la necessità del dissotterramento dei rifiuti per evitare l’inquinamento del terreno e della falda freatica». Ma non è avvenuto: i rifiuti sono rimasti in località Tre Monti, sotto i piloni dell’A25. E i giudici scrivono: «I rifiuti sono stati direttamente stoccati sul suolo senza alcun idoneo sistema di impermeabilizzazione o copertura tanto da essere tutt’oggi commisti con il terreno». È la descrizione del terreno diventato rosso. E a Bussi non era un mistero: lo sapevano gli imputati ma, per i giudici, hanno sottovalutato la portata dell’inquinamento «pure in presenza di studi interni» che avevano rivelavato «lo stato di contaminazione della falda da sostanze clorurate», studi risalenti al 1992, «e non ne hanno doverosamente approfondito le cause e ne hanno successivamente ridimensionato la portata». È nato così un disastro ambientale che non ha fatto sconti, consistito «nella contaminazione estesa e diffusa di tutte le matrici ambientali, acque superficiali e profonde, suolo e sottosuolo». Secondo i giudici, «è emerso con chiarezza dalle indagini del corpo forestale, dagli accertamenti dell’Arta e dalle analisi dei consulenti tecnici che la contaminazione delle matrici ambientali è certamente riconducibile alla produzione di sostanze chimiche svolta nel sito industriale che ha determinato la dispersione e l’interramento di plurime sostanze tossiche, alcune delle quali anche di natura cancerogena». E poi ci sono anche gli studi dell’Istituto superiore di sanità sul fenomeno della contaminazione delle acque sul pericolo per la salute umana «che hanno evidenziato come la qualità della risorsa idrica di origine sia stata significativamente compromessa e ciò per effetto dello svolgersi di attività industriali di straordinario impatto ambientale in aree ad alto rischio per la falda acquifera, interessate da incontrollate prolungate attività di versamento di rifiuti, della diffusione molteplicità delle sorgenti inquinanti».
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