IL PERSONAGGIO
Angelo Fabbrini, una vita alla ricerca del suono perduto
Il grande accordatore pescarese di pianoforti si racconta in un libro
Nel mondo della musica, e in particolare del grande pianismo internazionale, Angelo Fabbrini è un mito. A lui, nato a Pesaro 86 anni fa ma pescarese di adozione, si sono rivolti i più grandi pianisti, da Benedetti Michelangeli a Pollini, da Zimerman a Brendel, da Sokolov a Martha Argerich, che suonano solo sui gran coda Steinway da lui accordati, e che lo vogliono al loro fianco nelle loro tournée in tutti i paesi del mondo. La vita di Angelo Fabbrini è ora un libro intitolato “La valigetta dell'accordatore. La ricerca del suono perduto” (Passigli, 160 pagine, 18 euro) che esce oggi. Nel libro Fabbrini racconta la sua vita affidandosi alla penna di Pietro Marincola con un’intervista di Valentina Pagni. Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo, in pagina, un estratto dell’intervista rilasciata da Fabbrini a Valentina Pagni.
di VALENTINA PAGNI
Com’è avvenuto l’incontro tra la sua famiglia e i pianoforti?
Mio padre Giulio aveva appreso il mestiere di accordatore in una bottega a Pesaro, dove vivevamo. Per un periodo aveva anche lavorato a Torino presso la FIP (Fabbrica Italiana Pianoforti): in quegli anni era abitudine, dopo che avevano frequentato il laboratorio, mandare i giovani a fare un’esperienza presso le ditte produttrici. Mio padre aveva anche studiato musica e scritto alcune composizioni, dedicando alla mamma una Serenata che aveva avuto l’onore della stampa, ma di cui purtroppo si sono perse le tracce. A proposito di serenate, mi viene in mente un episodio degli anni Cinquanta, quando anch’io progettai di “portare la serenata” a una ragazza che mi piaceva.
Un giovane romantico…
In quegli anni era una forma di corteggiamento piuttosto diffusa, ma la particolarità della mia serenata consisteva nella scelta del pianoforte, e fu così che una sera ne caricai uno sopra un furgoncino (il mio destino era già scritto!), posteggiai di fronte alla casa della ragazza e mi misi a suonare per lei. Si aprirono via via alcune finestre, ma non quella alla quale mi rivolgevo, così riprovai ancora nelle sere successive. Ricordo i suoni di quelle notti: il mio pianoforte suscitava una vibrazione del furgone che mi accompagnava come un tamburo rullante, e a un certo punto al concerto si unì anche un gatto, che faceva la sua serenata nei paraggi.
E la ragazza…?
Non si fece mai vedere, purtroppo, ma la terza sera fui avvicinato da un gentile signore che mi offrì una caciotta e un salame perché portassi la serenata a Spoltore, dove abitava la sua amata. Ripensandoci, la situazione era davvero buffa... Non accettai l’offerta – anche se il salame e la caciotta avevano un aspetto molto appetitoso – temendo che se qualcuno mi avesse visto in quella zona, dove già avevo iniziato a lavorare, la mia reputazione professionale ne sarebbe risultata irrimediabilmente compromessa.
Comunque, se aveva pensato di conquistare una ragazza col pianoforte, significa che lo suonava piuttosto bene.
In realtà avevo solo iniziato a studiarlo, e i risultati non erano eccelsi, probabilmente a causa dell’interesse quasi esclusivo che fin da piccolo nutrivo per il suono. Esercitava su di me un effetto che potrei definire ipnotico, e così, ascoltandolo, mi soffermavo, finendo per non rispettare le indicazioni di tempo. Perciò ho scelto di dedicarmi a ciò che amavo di più, cioè prendermi cura del suono; così ho finito per frequentare il conservatorio tutta la vita, ma solo per lavoro.
Nelle sue memorie, consegnate in questo libro alla penna del fidato collaboratore Pietro Marincola, la passione per il pianoforte appare davvero incontenibile. Quando ha capito che stava diventando un’occupazione?
È avvenuto senza quasi rendermene conto, perché in realtà sono stato sempre attratto in modo irresistibile dal pianoforte, col quale ho un rapporto che potrei definire di dipendenza. Ancor oggi, quando sono ospite di una casa per la prima volta, mi capita di aggirarmi tra le stanze fin quando qualcuno mi chiede se sto forse cercando la toilette, mentre la domanda che vorrei fare è: “Ma dov’è, qui, il pianoforte?”.
Un vero e proprio innamoramento…
La verità è che io ho bisogno di lavorare sul pianoforte, di sentire il suo suono; ne ho necessità come dell’ossigeno. Non posso stare lontano dal pianoforte, che per me è un oggetto meraviglioso nella sua complessità, dotato di una voce e di un’anima che desidero innanzitutto conservare. È stato per questo che, dopo aver iniziato ad accordare e curare gli strumenti di proprietà dei teatri o dei conservatori, ho voluto occuparmi di pianoforti scelti e acquistati da me direttamente, in quella che negli anni è divenuta la “Collezione Fabbrini”.
Come sceglie?
Spesso la scelta è legata a una specifica richiesta degli artisti, quindi cerco di assecondare le loro preferenze tenendo conto delle esigenze di repertorio, delle sale in cui suonano, sempre secondo la mia sensibilità. Ho fatto senz’altro degli errori, ma il fatto che questi pianoforti viaggino al fianco degli artisti in tutto il mondo credo dimostri la sostanziale validità delle scelte compiute. Qualche volta ho agito d’impulso, direttamente con il cuore (e contro ogni logica commerciale)…
Ovvero?
È stato, per esempio, il caso di un mio viaggio ad Amburgo finalizzato all’acquisto di quattro pianoforti Steinway modello B, un po’ più piccoli dei gran coda da concerto ma perfetti per la casa di un musicista. Per ogni acquirente è previsto un numero massimo di strumenti, che deve essere dichiarato anticipatamente. Così, una volta arrivato alla Steinway & Sons, mi sono trovato in grande difficoltà: dieci strumenti meravigliosi erano davanti a me, ed esaminandone con cura le componenti lignee mi sono reso conto che provenivano da un’unica, pregevolissima partita di legname. Erano come imparentati tra di loro, una grande famiglia di pianoforti che non poteva in nessun caso essere smembrata. Non pensando nemmeno per un attimo di andar via senza portarli con me, ho ingaggiato con il managing director Thomas Kurrer un vero corpo a corpo, nel quale contrapponevo alle teutoniche regole della casa madre il mio desiderio fortissimo, col tipico atteggiamento del collezionista romantico. Mi ero talmente affezionato a quegli strumenti che non solo sono riuscito ad acquistarli tutti (potendo contare sulla cieca fiducia – e su un pizzico di follia – dei miei referenti bancari), ma mi sono anche impegnato poi a trovare per ciascuno una collocazione appropriata presso musicisti che sapevo essere in grado di rispettarne le caratteristiche, e trarne la giusta ispirazione. Ad esempio, uno di questi è andato a Filippo Gorini, un giovane interprete che sta facendo un bel lavoro sul suono.
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