Pecci: «Il mio Wilde parla con il pubblico oggi come nel 1899»
L’attore in tournèe in Abruzzo con “Divagazioni e Delizie” Interpreta l’artista di Dublino nei suoi ultimi disperati anni
L’AQUILA. «Sono sorpreso dalla reazione del pubblico che è entrato in sintonia con il personaggio e ha risposto specie alle parti più energiche del testo». Dopo l’anteprima dello scorso weekend a Tagliacozzo, Daniele Pecci torna in scena nei panni di Oscar Wilde in vari teatri abruzzesi con lo spettacolo “Divagazioni e Delizie” di John Gay, autore americano scomparso nel 2017, omonimo del poeta inglese. Una produzione del Teatro stabile d’Abruzzo, in sinergia con Shakespeare & Co. e Teatro Caniglia che vede tre repliche all’Aquila, al Ridotto del Teatro, domani domani alle 21 e venerdì alle 17.30 e alle 21. Il testo va in scena anche a Pescina (questa sera), Sulmona (sabato 18), Gessopalena (domenica 19), Atessa (venerdì 24), Città Sant'Angelo (sabato 25).
Sul palco Pecci, che cura anche traduzione e regia, è supportato dalle musiche di Patrizio Maria D’Artista, mentre i costumi sono a cura di Alessandro Lai. Raffaele Latagliata è assistente regista. “Divagazioni e Delizie” si propone come una sorta di conferenza autobiografica dell’autore di Dublino, a tratti interrotta da piccoli colpi di scena e strani contrasti con i due inservienti-macchinisti del teatro. Seppur velata da una costante malinconia e poi da un sarcasmo feroce, la prima parte del testo scivola via fra vecchi ricordi, aneddoti, e racconti spesso molto divertenti. La seconda parte invece, attinge a piene mani da quel doloroso e terribile atto d’accusa che è il “De Profundis”: il fatale amore per Lord Alfred Douglas, il processo, il carcere, gli ultimi anni dell’artista esule tra la Francia e Napoli, la malattia e il presagio della morte ormai imminente.
Pecci, che tipo di adattamento ha realizzato al testo di Gay?
Parliamo di un testo teatrale scritto intorno agli anni Settanta per il grande attore americano – a torto ritenuto inglese – che era Vincent Price. Questo commediografo americano ha elaborato un testo mettendo insieme romanzi, brevi racconti, commedie, saggi, lettere o semplicemente aforismi di Oscar Wilde. Così sono riuscito ad adattarlo con una traduzione che praticamente non ha spostato una parola, in cui è rimasta intatta la forza del testo wildiano. La bravura dell’autore è stata quella di inventare il presupposto per cui Wilde, nell’ultimo anno della sua vita, il 1899, uscito dal carcere ed esule in Francia, stanco, grasso, malato e completamente in bancarotta, per cercare di tirare avanti, affitti piccole sale teatrali per dar spettacolo di sé.
Quali testi preferisce di Wilde?
Il ritratto di Dorian Gray e il De Profundis.
Come si riesce a conciliare la forza di una scrittura brillante e disinvolta come quella di Wilde, con questa immagine decadente del suo tramonto?
È un lavoro autoriale meraviglioso che ci ha consegnato una visione interessante di Wilde, la cui vita si presenta a una duplice lettura: da una parte l’aspetto estetico-filosofico estremamente brillante e ironico e una seconda parte in cui deve fare i conti con quello che è stato prima. E questo succede dopo il carcere, la solitudine, il dolore, il momento in cui viene spogliato di tutto: denaro, figli, salute. Circostanze che lo hanno portato a scrivere la Ballata del Carcere di Reading. Sul palcoscenico compaiono entrambe le “versioni” di Wilde. Per me come attore, la sfida è anche quella di dialogare con il pubblico: il momento che vogliamo emulare vede Wilde scendere a parlare con la platea parigina del 30 novembre 1899, presentandosi come “il mostro”, “lo scandalo vivente”. La difficoltà è attualizzare quel dialogo rendendolo fruibile al pubblico dei giorni nostri.
Lei è conosciuto al grande pubblico per cinema e tv, ma ha scoperto il teatro molto presto. Come è andata?
Sono praticamente 34 anni che faccio teatro, ininterrottamente. Ovvio che negli anni in cui ho lavorato più intensamente in tv e sul grande schermo ho dovuto rallentare. Ma il teatro è la mia grande passione.
Che idea si è fatto della notte degli Oscar, anche in rapporto alla situazione del cinema italiano?
Non sono granché appassionato di premi. Il cinema italiano risente di una grande crisi culturale ed economica.
Sul palco Pecci, che cura anche traduzione e regia, è supportato dalle musiche di Patrizio Maria D’Artista, mentre i costumi sono a cura di Alessandro Lai. Raffaele Latagliata è assistente regista. “Divagazioni e Delizie” si propone come una sorta di conferenza autobiografica dell’autore di Dublino, a tratti interrotta da piccoli colpi di scena e strani contrasti con i due inservienti-macchinisti del teatro. Seppur velata da una costante malinconia e poi da un sarcasmo feroce, la prima parte del testo scivola via fra vecchi ricordi, aneddoti, e racconti spesso molto divertenti. La seconda parte invece, attinge a piene mani da quel doloroso e terribile atto d’accusa che è il “De Profundis”: il fatale amore per Lord Alfred Douglas, il processo, il carcere, gli ultimi anni dell’artista esule tra la Francia e Napoli, la malattia e il presagio della morte ormai imminente.
Pecci, che tipo di adattamento ha realizzato al testo di Gay?
Parliamo di un testo teatrale scritto intorno agli anni Settanta per il grande attore americano – a torto ritenuto inglese – che era Vincent Price. Questo commediografo americano ha elaborato un testo mettendo insieme romanzi, brevi racconti, commedie, saggi, lettere o semplicemente aforismi di Oscar Wilde. Così sono riuscito ad adattarlo con una traduzione che praticamente non ha spostato una parola, in cui è rimasta intatta la forza del testo wildiano. La bravura dell’autore è stata quella di inventare il presupposto per cui Wilde, nell’ultimo anno della sua vita, il 1899, uscito dal carcere ed esule in Francia, stanco, grasso, malato e completamente in bancarotta, per cercare di tirare avanti, affitti piccole sale teatrali per dar spettacolo di sé.
Quali testi preferisce di Wilde?
Il ritratto di Dorian Gray e il De Profundis.
Come si riesce a conciliare la forza di una scrittura brillante e disinvolta come quella di Wilde, con questa immagine decadente del suo tramonto?
È un lavoro autoriale meraviglioso che ci ha consegnato una visione interessante di Wilde, la cui vita si presenta a una duplice lettura: da una parte l’aspetto estetico-filosofico estremamente brillante e ironico e una seconda parte in cui deve fare i conti con quello che è stato prima. E questo succede dopo il carcere, la solitudine, il dolore, il momento in cui viene spogliato di tutto: denaro, figli, salute. Circostanze che lo hanno portato a scrivere la Ballata del Carcere di Reading. Sul palcoscenico compaiono entrambe le “versioni” di Wilde. Per me come attore, la sfida è anche quella di dialogare con il pubblico: il momento che vogliamo emulare vede Wilde scendere a parlare con la platea parigina del 30 novembre 1899, presentandosi come “il mostro”, “lo scandalo vivente”. La difficoltà è attualizzare quel dialogo rendendolo fruibile al pubblico dei giorni nostri.
Lei è conosciuto al grande pubblico per cinema e tv, ma ha scoperto il teatro molto presto. Come è andata?
Sono praticamente 34 anni che faccio teatro, ininterrottamente. Ovvio che negli anni in cui ho lavorato più intensamente in tv e sul grande schermo ho dovuto rallentare. Ma il teatro è la mia grande passione.
Che idea si è fatto della notte degli Oscar, anche in rapporto alla situazione del cinema italiano?
Non sono granché appassionato di premi. Il cinema italiano risente di una grande crisi culturale ed economica.