«Vi raccontiamo nostro padre, John Fante» / Video
Victoria e Jim, i figli dello scrittore, raccontano vita e passioni del genitore originario di Torricella Peligna. Oggi la chiusura del festival con Paola Leccese
TORRICELLA PELIGNA. «Quando vengo qui a Torricella Peligna è come tornare in famiglia: questa è la mia famiglia». Si commuove, Victoria Fante Cohen in piazza dell’Unità, nel cuore del paese da cui il nonno, Nick Fante, partì agli inizi del secolo scorso alla volta dell’America dove, a Denver in Colorado, sarebbe nato suo figlio, John Fante, lo scrittore scomparso nel 1983 di cui, qui a Torricella Peligna (Chieti), si celebra l’eredità con il Fante Festival-Il dio di mio padre, giunto, quest’anno, alla sua dodicesima edizione.
La rassegna di letteratura e musica, diretta da Giovanna Di Lello, che si concluderà oggi (si legga il programma nel box in basso), ha accolto, ieri pomeriggio, Victoria e Jim Fante, i due figli superstiti dello scrittore autore di classici come Chiedi alla povere e La confraternrita del Chianti. Prima di partecipare a un incontro pubblico in piazza, i due figli di John Fante, che vivono in California, dove lui fa l’agente immobiliare e lei si occupa del Fondo Fante, hanno raccontato al Centro la loro vita con il padre, outsider nella letteratura e nella vita.
In che senso John Fante era un outsider?
«Lo era come italo-americano in una società a maggioranza bianca e anglosassone: era un outsider assoluto nella letteratura e nella vita», dice Jim Fante. «Nostro padre», aggiunge Victoria Fante, «ci ha insegnato a non fare mai differenze fra gli uomini per ragioni di classe sociale o di razza».
Come era la vita quotidiana in casa vostra quando John Fante scriveva?
«Quando papà scriveva era come se partisse una sirena», sorride Victoria. «Noi bambini dovevamo stare lontani dalla stanza in cui lui batteva sui tasti della macchina da scrivere. Ma poi, a cena, capitava che lui portasse a tavola le pagine che aveva scritto quel giorno per leggercele».
Di cosa era più orgoglioso della sua eredità italiana?
«Un po’ di tutto», risponde Jim. «Mi ricordo», gli fa eco Victoria, «una volta che raccontai in casa una barzelletta che avevo sentito a scuola sui uop (il termine dispregiativo con cui venivano chiamati gli italiani in America ndr). Lui mi guardò dritto negli occhi e mi avvertì: non voglio più sentire quella parola in questa casa».
Com’era John Fante nel suo tempo libero?
«Gli piaceva il baseball, era un grande fan dei Dodgers», racconta Jim. «Andavamo spesso alle partite e avevamo inventato anche un gioco basato sulle statistiche con cui disputavamo partite con i dadi. Papà era un grande fan dei Dodgers da prima che si trasferissero da New York a Los Angeles anche perché ci giocava Jackie Robinson, il primo nero a gareggiare in una squadra della Major League».
Quando John Fante scriveva le sceneggiature per Hollywood era meno contento di quando lavorava ai suoi libri?
«Sì», risponde Jim, «ma non è vera la storia che odiasse Hollywood. Aveva lavorato anche ad alcune sceneggiature che Francis Scott Fitzgerald non riusciva a completare a causa del suo alcolismo. Era un lavoro che faceva anche perché soltanto con i libri non si metteva il piatto in tavola».
Quali erano gli scrittori che amava?
«Francis Scott Fitzgerald, per esempio», ricorda Victoria. «Quando, da ragazzina, leggevo romanzi rosa lui mi disse di dedicarmi a qualcosa di più serio. Così lessi Il Grande Gatsby. Lui ne fu felicissimo». «Ma lui amava anche gli altri grandi scrittori di quella generazione come Steinbeck e Hemingway. Amava la grande letteratura».
©RIPRODUZIONE RISERVATA