Farindola

A Rigopiano lo Stato sfila al fianco dei familiari: «Qualcosa si inizia a capire»

19 Gennaio 2025

Il sottosegretario Prisco consegna ai parenti le fasce tricolori di Mattarella e Meloni. Ma è ancora tanto il dolore: «Bastava rispettare la legge per evitare il disastro»

FARINDOLA. «Venire a Rigopiano è una necessità, è rivedere Emanuele e tutto com’era. Qui sentiamo che c’è ancora qualcosa di lui, qualcosa che ci attira. E ogni volta che vado via è un distacco». Piange Paola Ferretti, e come lei, mamma di Emanuele Bonifazi, le madri delle altre 28 vittime, i padri, i figli, fratelli e sorelle che ieri, ottavo anniversario della valanga che ha abbattuto l’hotel (29 morti e 11 sopravvissuti), si sono ritrovati ancora una volta ai piedi di quella maledetta montagna, il monte Siella. Per loro tornare a Rigopiano è tornare a quel giorno, a quell’ora, all’attimo prima in cui tutti ancora erano vivi. È immaginare le loro voci che via WhatsApp gridavano di andarsene, bloccati dalla mattina dal muro di neve che chiudeva la strada.

La chiamano commemorazione, ma la ferita è ancora troppo aperta per “commemorare”. Tornare a Rigopiano il giorno della tragedia, come hanno fatto anche ieri i familiari delle 29 vittime (anche se la neve in quota del mattino ha fatto spostato «per prevenire ogni criticità» la cerimonia a Farindola), è riempire il tempo tra fiaccolata e messa - che pure concedono raccoglimento e preghiera - con l’unico obiettivo di aspettare le 16.49, quando tutto si è fermato. Quando la montagna, stanca di tutti gli avvertimenti inviati dalla mattina con le scosse di terremoto, otto anni fa ha ruggito una sola volta prima di catapultare sul resort e sui suoi 40 prigionieri 120mila tonnellate di neve, piante e detriti.

Per le 29 famiglie colpite a morte, stare a Rigopiano il 18 gennaio è provare a respirare l’aria che prima di morire hanno respirato Nadia e Sebastiano, Silvana e Luciano, Claudio e Sara, Valentina, Dino e Marina, Piero e Barbara, Stefano, Tobia e Bianca, Jessica e Marco, Paola e Marco, Luana, Emanuele, Marinella, Gabriele, Ilaria, Dame, Alessandro, Cecilia, Alessandro, Linda e Roberto, i nomi scanditi ieri pomeriggio in chiesa per ogni rosa bianca portata all’altare da un familiare. È guardare lo stesso cielo di allora, lo stesso giorno che si spegne, la stessa montagna, oggi sazia e chissà fino a quando. Ma adesso, mentre lassù il canalone sembra aver iniziato a cicatrizzarsi con la natura che riprende il suo corso, giù a valle ci sono ancora lacrime e silenzi.

E alle 16,49 è potente il silenzio mentre, davanti alla gigantografia delle 29 vittime, il coro accompagna con “Il Signore delle cime” il volo dei 29 palloncini bianchi che insieme si alzano e si disperdono nel cielo denso, quasi bianco, che mentre bagna con una pioggerella sottile, unisce e commuove. Dopo la messa celebrata da don Giancarlo Di Giulio, nel piazzale davanti alla chiesa di San Nicola di Bari dove i familiari hanno deposto le 29 fiaccole con i nomi dei loro cari, ci sono i familiari, c’è il sopravvissuto Fabio Salzetta, ma ci sono anche le istituzioni che, dopo i primi anni di imbarazzo e distacco, stavolta partecipano numerose. E qualcuno si commuove anche. Per la prima volta ci sono il presidente nazionale della Croce Rossa, Rosario Valastro, e il capo del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco Eros Mannino, e poi il sottosegretario agli Interni Emanuele Prisco e il prefetto Flavio Ferdani che insieme consegnano in chiesa, ai rappresentanti dei familiari, le fasce tricolori della presidenza della Repubblica e della presidenza del Consiglio dei ministri.

Dice il sottosegretario Prisco quando, intorno alle 15, apre la fiaccolata che dal bivio Mirri, dove otto anni fa c’era il muro di neve, scende verso la chiesetta di Farindola: «Credo che sia l’Abc del vivere civile costruire le condizioni migliori per prevenire disastri, tutto non si può prevenire, ma quello che si può evitare si deve evitare. La prevenzione è la priorità di questo governo. Il nostro impegno è costante anche per onorare queste vittime». Scrutano i capannelli di microfoni i familiari che con la casacca bianca e la foto del proprio caro impressa, si avviano verso la chiesa. È poca la voglia di parlare. Marcello Martella, che a Rigopiano ha perso la figlia Cecilia, però commenta: «Se sono tutti qui, significa che forse si inizia a capire, inizia a passare quello che diciamo da sempre, che qualcosa quel giorno è andato storto. Da parte loro è una presa di coscienza che ci dà la forza per cercare di ottenere quello che finora non abbiamo avuto».

E il riferimento è ancora alla giustizia e all’appuntamento con l’Appello bis a cui la Cassazione ha rimandato, con l’accusa di disastro, sei rappresentanti della protezione civile regionale. Martella è tra gli organizzatori della manifestazione ed è con il fare, tra orari e canovaccio da rispettare, che mette a tacere il cuore. Ma poi racconta l’ultima volta che ha visto la sua Cecilia: «L’avevo accompagnata io con la macchina il sabato, come facevo sempre. È scesa, con lo zaino in spalla e il cappello, ha superato il cancello dell’hotel e si è girata mentre i tre cani le andavano incontro scodinzolanti per accompagnarla fino all’ingresso. “Ci vediamo”, mi ha sorriso. E non l’ho vista più. Sarebbe dovuta tornare il lunedì 16, ma poi la collega che la doveva sostituire era incinta e aveva una visita quel lunedì, le chiese il cambio di turno. Ed eccoci qua».

È uno sliding doors continuo e maledetto quello che accompagna la storia di ognuna delle 29 vittime. Coincidenze che si ripetono come quella dei parrucchieri di Castelfrentano, Silvana Angelucci e Luciano Caporale: quella vacanza a Rigopiano era prenotata per il 30 ottobre precedente, del 2016, quando ci fu il terremoto e Silvana si rifiutò di partire. Coincidenze e rimpianti che fanno piangere ancora, di rabbia, la mamma di Emanuele: «Non ha mai saltato un giorno, mai una malattia, quel sabato con quel tempo dovevo fermarlo, non dovevo farlo partire, è questo che non mi perdono». E poi: «Doveva tornare il martedì 17, mi ero raccomandata di guardare le condizioni meteo. E quando ha staccato il turno, alle 15,30 di quel martedì la strada era bloccata, stavano aspettando lo spazzaneve. Tra una cosa e un’altra sarebbe potuto ripartire intorno alle 18. Ma mettersi in strada con quel tempo e di sera, per arrivare a Pioraco, nelle Marche, non era prudente. Ed è rimasto».

Ma non è l’unico rimpianto di Paola e degli altri familiari: «Resta il rammarico che, se all’inizio non fossero state archiviate le posizioni delle parti politiche, ora si poteva parlare di una giustizia piena. Così non è una giustizia completa, anche se dopo la Cassazione è stata la prima volta che abbiamo pianto di commozione perché c’è stato un riconoscimento delle responsabilità che abbiamo sempre considerato tali. Ma la montagna no, la montagna non c’entra. «Ci ho provato a odiarla, a detestarla, me lo sono anche imposto di odiare la montagna», conclude Paola Ferretti, «ma non ci sono riuscita perché la natura non ha colpe. La natura si riprende i suoi spazi e l’uomo deve saper rispettare quelle regole. Bastava fare la carta valanghe, bastava rispettare la legge per evitare la tragedia». E invece otto anni dopo, alle 16,49 sono tutti là, gli occhi nel cielo, mentre i 29 palloncini volano via. Tutti insieme.

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