Pescara
Abusi sessuali, la Cassazione: il parroco non può evitare il processo
Già condannato dal tribunale ecclesiastico, don Vito Cantò patirà anche il giudizio terreno: il suo ricorso ritenuto «inammissibile»
PESCARA. «Inammissibile». Un parroco, accusato di presunti abusi sessuali, non può sottrarsi al giudizio di un tribunale dello Stato. Anche se, per lo stesso reato, è stato condannato già dalla Chiesa. Lo ha deciso la Corte di Cassazione che ha bocciato il ricorso presentato da don Vito Cantò, l’ex parroco della chiesa di San Camillo de Lellis a Villa Raspa di Spoltore accusato di presunti abusi sessuali commessi su un minorenne tra il 2011 e il 2012 e per questo finito sotto processo. E, nell’udienza di ieri, si è parlato proprio di quel ricorso che avrebbe potuto cambiare i rapporti tra Stato e Chiesa.
Il caso di don Vito, 44 anni e originario di Cepagatti, riporta al 2013 quando alla curia di Pescara arrivarono voci di presunti abusi sessuali su un ragazzino. Sospeso dalla curia, il parroco lasciò misteriosamente la chiesa da un giorno all’altro. Dopo l’avvio del processo canonico, nel 2014, la famiglia del ragazzino si rivolse alla polizia e denunciò gli incontri sessuali tra il prete e il minorenne: incontri senza costrizione fisica nell’alloggio canonico, ma che a distanza di anni avrebbero turbato il giovane.
Poi, sempre nel 2014, il tribunale ecclesiastico ha condannato don Vito a una pena perpetua, il divieto di svolgere attività parrocchiali con minorenni, e a pene temporanee: il prete è stato sospeso per tre anni dal ministero sacerdotale e in questo periodo non può celebrare messa se non con un altro parroco accanto o senza fedeli davanti a sé; per 5 anni è consegnato all’obbligo di dimora per una «vita di preghiera e di penitenza» all’interno di un monastero di Roma destinato ai «sacerdoti che si trovano in particolari difficoltà» e deve seguire «un percorso psicoterapeutico». Don Vito ha evitato la pena ecclesiastica più alta, quella della dimissione, cioè la perdita dello stato clericale: la Chiesa gli ha dato un’altra possibilità. E solo alla Chiesa don Vito avrebbe voluto rendere conto. Con il ricorso, il prete, difeso dall’avvocato Giuliano Milia, aveva invocato il principio del «ne bis in idem» e cioè non si può essere condannati due volte per lo stesso reato: il parroco aveva sostenuto che lo Stato non può giudicare, per uno stesso reato, un prete già dichiarato colpevole da un tribunale ecclesiastico: secondo la tesi di don Vito, un curato dovrebbe rispondere solo a Dio dei suoi reati, dei suoi peccati e delle sue debolezze. Una tesi, che se fosse stata accolta, avrebbe creato un precedente pericoloso: se i giudici della Suprema corte si fossero schierati dalla parte di don Vito, ogni chiesa sarebbe potuta diventare una zona franca al riparo della giustizia penale. Paradossalmente, una condanna canonica, come l’obbligo a una vita monacale per un dato periodo, sarebbe bastata a bloccare un processo penale per reati gravi con pene fino a 10 anni di reclusione.
Per ora, si sa solo che la Cassazione ha definito «inammissibile» il ricorso del parroco: le motivazioni non sono state rese ancora note. E proprio in attesa delle motivazioni, la difesa del parroco ha ripresentato lo stesso ricorso al tribunale: il pm Salvatore Campochiaro e l’avvocato di parte civile, Vincenzo Di Girolamo, si sono opposti. Il tribunale ha scelto di posticipare la decisione sull’eccezione alle fasi successive del giudizio quando saranno disponibili le motivazioni. La difesa del prete, a quel punto, ha avanzato una richiesta di rito abbreviato condizionata all’acquisizione di una chat tra il ragazzino ed altre persone, avvenuta tre anni dopo i fatti contestati. Una chat che, per la difesa, dovrebbe dimostrare l’estraneità del parroco ai reati contestati. Si tornerà in aula il 23 novembre prossimo, quando saranno ascoltate due delle persone che hanno partecipato alla chat e un consulente di parte del prete, la psicologa Marilisa Amorosi.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Il caso di don Vito, 44 anni e originario di Cepagatti, riporta al 2013 quando alla curia di Pescara arrivarono voci di presunti abusi sessuali su un ragazzino. Sospeso dalla curia, il parroco lasciò misteriosamente la chiesa da un giorno all’altro. Dopo l’avvio del processo canonico, nel 2014, la famiglia del ragazzino si rivolse alla polizia e denunciò gli incontri sessuali tra il prete e il minorenne: incontri senza costrizione fisica nell’alloggio canonico, ma che a distanza di anni avrebbero turbato il giovane.
Poi, sempre nel 2014, il tribunale ecclesiastico ha condannato don Vito a una pena perpetua, il divieto di svolgere attività parrocchiali con minorenni, e a pene temporanee: il prete è stato sospeso per tre anni dal ministero sacerdotale e in questo periodo non può celebrare messa se non con un altro parroco accanto o senza fedeli davanti a sé; per 5 anni è consegnato all’obbligo di dimora per una «vita di preghiera e di penitenza» all’interno di un monastero di Roma destinato ai «sacerdoti che si trovano in particolari difficoltà» e deve seguire «un percorso psicoterapeutico». Don Vito ha evitato la pena ecclesiastica più alta, quella della dimissione, cioè la perdita dello stato clericale: la Chiesa gli ha dato un’altra possibilità. E solo alla Chiesa don Vito avrebbe voluto rendere conto. Con il ricorso, il prete, difeso dall’avvocato Giuliano Milia, aveva invocato il principio del «ne bis in idem» e cioè non si può essere condannati due volte per lo stesso reato: il parroco aveva sostenuto che lo Stato non può giudicare, per uno stesso reato, un prete già dichiarato colpevole da un tribunale ecclesiastico: secondo la tesi di don Vito, un curato dovrebbe rispondere solo a Dio dei suoi reati, dei suoi peccati e delle sue debolezze. Una tesi, che se fosse stata accolta, avrebbe creato un precedente pericoloso: se i giudici della Suprema corte si fossero schierati dalla parte di don Vito, ogni chiesa sarebbe potuta diventare una zona franca al riparo della giustizia penale. Paradossalmente, una condanna canonica, come l’obbligo a una vita monacale per un dato periodo, sarebbe bastata a bloccare un processo penale per reati gravi con pene fino a 10 anni di reclusione.
Per ora, si sa solo che la Cassazione ha definito «inammissibile» il ricorso del parroco: le motivazioni non sono state rese ancora note. E proprio in attesa delle motivazioni, la difesa del parroco ha ripresentato lo stesso ricorso al tribunale: il pm Salvatore Campochiaro e l’avvocato di parte civile, Vincenzo Di Girolamo, si sono opposti. Il tribunale ha scelto di posticipare la decisione sull’eccezione alle fasi successive del giudizio quando saranno disponibili le motivazioni. La difesa del prete, a quel punto, ha avanzato una richiesta di rito abbreviato condizionata all’acquisizione di una chat tra il ragazzino ed altre persone, avvenuta tre anni dopo i fatti contestati. Una chat che, per la difesa, dovrebbe dimostrare l’estraneità del parroco ai reati contestati. Si tornerà in aula il 23 novembre prossimo, quando saranno ascoltate due delle persone che hanno partecipato alla chat e un consulente di parte del prete, la psicologa Marilisa Amorosi.
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