«Così il detenuto-pugile mi ha rotto la mandibola»
Colpito da un montante destro che lo ha costretto a cinque mesi di cure e dolore Sovrintendente del carcere di Pescara parla del dramma che gli ha segnato la vita
PESCARA. Quel montante destro sferrato da un detenuto, che gli ha quasi staccato la mandibola, lo ha segnato per sempre. F.R., sovrintendente della polizia penitenziaria, racconta al Centro la violenza subita in carcere. Lo fa con una lettera che è un misto di dolore e amarezza.
«Sono passati 34 anni dal giorno che ho deciso di vestire la divisa». Comincia così il suo racconto. «Mi dicevano che la mia è una professione in cui, fino alla fine, non puoi essere sicuri di restare indenne. A meno di un anno dalla pensione però mi sentivo uno dei pochi fortunati anche perché il mio metodo di lavoro è sempre stato improntato sull’umanità».
GIORNO MALEDETTO. «Anche il 4 marzo sono uscito di casa con la voglia di lavorare, malgrado cinque lustri passati dietro sbarre di acciaio», continua F.R. «Un caffè allo spaccio prima di iniziare, una stretta di mano a tutti i colleghi e un sano buongiorno ai detenuti che mi apprestavo a controllare. Così è iniziato quel turno che ricorderò per tutta la vita».
Ci troviamo nel carcere di Pescara dove il sovrintendente coordinava un gruppo di agenti. «Ma quel giorno», riprende a raccontare, «mi si è presentato il compito di dover cambiare di cella o, come si dice adesso, di “camera di pernottamento”, un detenuto conosciuto per essere stato un famoso pugile seppur segnato da problemi psicologici. Sono stato gentile con lui, come sempre, ma non avevo fatto i conti con uno che non ha mai conosciuto il significato della parola umanità».
PUGNO DA KO. Il dramma sta per consumarsi. «Dopo un breve dialogo, il pugile, in regime di sorveglianza dinamica che permette libertà di movimento nei corridoi, si è girato di colpo verso di me e, con un montante destro, mi ha colpito in pieno volto massacrandomi la mandibola». F.R. cade a terra. «In un istante», scrive, «il patrimonio di anni di lavoro mi è passato davanti agli occhi e, come un castello di carte appena finito di costruire, è franato per un gesto inaspettato. Da quel momento all'elenco di tanti colleghi rimasti vittime di aggressioni si aggiungeva anche il mio nome».
CHI LO AIUTA. «Per un attimo ho perso l'orientamento e sono caduto con la faccia rivolta verso il pavimento», racconta il sovrintendente, «ma due detenuti mi hanno soccorso. Uno mi ha aiutato a rialzarmi, l'altro mi ha fatto sedere su una sedia mentre un collega di sezione teneva a bada l’aggressore. Grazie a loro ho guadagnato l'uscita del carcere. Ricordo bene l’entrata del pronto soccorso e la smorfia del medico che non faceva presagire nulla di buono. Il passaggio ai raggi X e poi la Tac. Sono rimasto immobilizzato», continua la lettera, «e costretto ad alimentarmi con una cannucce. Un primo intervento è servito a ridurre la spaventosa frattura. E, con il passare dei giorni, è lentamente cominciata la guarigione anche se sono stato sottoposto a un secondo intervento e ho dovuto sottostare ai diktat degli ortopedici ai quali sono grato. Solo dopo cinque mesi ho ricominciato a masticare», conclude F.R.. «La frattura è guarita ma non la ferita dell'anima». (l.c.)
«Sono passati 34 anni dal giorno che ho deciso di vestire la divisa». Comincia così il suo racconto. «Mi dicevano che la mia è una professione in cui, fino alla fine, non puoi essere sicuri di restare indenne. A meno di un anno dalla pensione però mi sentivo uno dei pochi fortunati anche perché il mio metodo di lavoro è sempre stato improntato sull’umanità».
GIORNO MALEDETTO. «Anche il 4 marzo sono uscito di casa con la voglia di lavorare, malgrado cinque lustri passati dietro sbarre di acciaio», continua F.R. «Un caffè allo spaccio prima di iniziare, una stretta di mano a tutti i colleghi e un sano buongiorno ai detenuti che mi apprestavo a controllare. Così è iniziato quel turno che ricorderò per tutta la vita».
Ci troviamo nel carcere di Pescara dove il sovrintendente coordinava un gruppo di agenti. «Ma quel giorno», riprende a raccontare, «mi si è presentato il compito di dover cambiare di cella o, come si dice adesso, di “camera di pernottamento”, un detenuto conosciuto per essere stato un famoso pugile seppur segnato da problemi psicologici. Sono stato gentile con lui, come sempre, ma non avevo fatto i conti con uno che non ha mai conosciuto il significato della parola umanità».
PUGNO DA KO. Il dramma sta per consumarsi. «Dopo un breve dialogo, il pugile, in regime di sorveglianza dinamica che permette libertà di movimento nei corridoi, si è girato di colpo verso di me e, con un montante destro, mi ha colpito in pieno volto massacrandomi la mandibola». F.R. cade a terra. «In un istante», scrive, «il patrimonio di anni di lavoro mi è passato davanti agli occhi e, come un castello di carte appena finito di costruire, è franato per un gesto inaspettato. Da quel momento all'elenco di tanti colleghi rimasti vittime di aggressioni si aggiungeva anche il mio nome».
CHI LO AIUTA. «Per un attimo ho perso l'orientamento e sono caduto con la faccia rivolta verso il pavimento», racconta il sovrintendente, «ma due detenuti mi hanno soccorso. Uno mi ha aiutato a rialzarmi, l'altro mi ha fatto sedere su una sedia mentre un collega di sezione teneva a bada l’aggressore. Grazie a loro ho guadagnato l'uscita del carcere. Ricordo bene l’entrata del pronto soccorso e la smorfia del medico che non faceva presagire nulla di buono. Il passaggio ai raggi X e poi la Tac. Sono rimasto immobilizzato», continua la lettera, «e costretto ad alimentarmi con una cannucce. Un primo intervento è servito a ridurre la spaventosa frattura. E, con il passare dei giorni, è lentamente cominciata la guarigione anche se sono stato sottoposto a un secondo intervento e ho dovuto sottostare ai diktat degli ortopedici ai quali sono grato. Solo dopo cinque mesi ho ricominciato a masticare», conclude F.R.. «La frattura è guarita ma non la ferita dell'anima». (l.c.)