PESCARA

Da Vibo Valentia fino ai negozi di Pescara, così la Ndrangheta si infiltra in Abruzzo

16 Marzo 2025

L’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro conta 26 indagati. Gli affari delle cosche calabresi sarebbero arrivati a Pescara e Montesilvano

PESCARA. La scalata delle ’ndrine, da Vibo Valentia fino alle vetrine di Pescara, avviene per fasi: il primo passo è il commercio di armi, esplosivi e droga necessario a creare la base del reddito della criminalità organizzata; poi, estorsioni e riciclaggio con «il reimpiego di denaro di provenienza illecita» in negozi e locali; e ancora «intestazione fittizia di beni e truffe per il conseguimento di erogazioni pubbliche». Questi gli affari delle cosche calabresi che puntano anche a Pescara e Montesilvano. Lo dice un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro con 26 indagati.

LE MANI SUI NEGOZI

Quelle carte rivelano gli interessi delle famiglie della ’ndrangheta per «acquisire direttamente e indirettamente la gestione e/o il controllo di attività economiche, in particolare nel settore turistico/immobiliare, dell’abbigliamento e della ristorazione; mantenere comunque la gestione e/o il piano controllo delle attività, condizionandone il regolare svolgimento». Il salto ideale, poi, è quello di «acquisire direttamente o indirettamente appalti pubblici e privati nei più svariati settori economici». E l’obiettivo ultimo è «affermare il controllo egemonico sul territorio anche mediante accordi tra cosche operanti in articolazioni territoriali diverse».

LASCIAPASSARE ’NDUjA

Gli atti dell’indagine – sono sei gli abruzzesi coinvolti – parlano dell’infiltrazione nel commercio di Montesilvano della ’ndrina Maiolo di Acquaro, a partire dalle prelibatezze calabresi come la ’nduja: sono residenti a Montesilvano, i fratelli Angelo e Francesco Maiolo, a capo della ’ndrina di Acquaro con affari nel «narcotraffico, estorsione e insinuazione negli appalti». In quattro sono accusati anche di trasferimento fraudolento di valori per un’attività di generi alimentari «per lo più calabresi» in via Verrotti: sono Angelo Maiolo, «quale socio occulto ed effettivo dominus dell’attività imprenditoriale, attraverso la prestazione d’opera dei professionisti Luciano Barone (di Montesilvano, ndr) e Luca Marano (di Pescara, ndr), attribuivano a Vincenzo Pisano, in modo fittizio, la titolarità delle quote e dell’intero compendio aziendale». Un’attività, dice l’accusa, «per conto della quale Angelo Maiolo fingeva anche di intrattenere un rapporto di lavoro dipendente, utile a ottenere la revoca della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale». E su questo, gli indagati avrebbero sviato anche le verifiche del tribunale di sorveglianza di Pescara fino alla decisione della «cessata pericolosità sociale di Maiolo» proprio per il lavoro a Montesilvano.

FRUTTA E SOCI OCCULTI

Nelle carte è citato anche un altro negozio di Montesilvano, un fruttivendolo lungo corso Umberto aperto dal francavillese Nicola Papaleo. Secondo le carte dell’indagine, Angelo Maiolo e Francesco Maiolo sarebbero stati «soci occulti ed effettivi dominus dell’attività imprenditoriale»: non si sarebbero esposti in prima persona e «al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale, attribuivano a Nicola Papaleo, in modo fittizio, la titolarità dell’impresa individuale».

L’IMPRENDITORE AMICO

Un capitolo a parte è dedicato proprio a Nicola Papaleo, considerato «imprenditore di riferimento dell'organizzazione criminale in Abruzzo, in particolare nella provincia di Pescara. Si metteva a disposizione del sodalizio, coadiuvandolo nel mercimonio della sostanza stupefacente in Abruzzo e su tutto il territorio nazionale, onde consentirgli di drenare denaro indispensabile al suo rafforzamento e al perseguimento del proprio programma delittuoso».

«ABRUZZO VERGINE»

Papaleo si sarebbe impegnato anche, dicono le carte dell’accusa, «per consentire al sodalizio l’avvio di nuove attività imprenditoriali in grado di permeare il tessuto economico abruzzese, da questo considerato zona “vergine”, “meno bruciato” della Calabria ottenendo in cambio protezione e accreditamento all’interno dell’associazione di stampo mafioso oltre entrature e favorevoli sinergie imprenditoriali derivanti dall’indotto mafioso rappresentato dall’approvvigionamento di prodotti a basso costo e dalle occasioni di lavoro connessi alla gestione illecita di ulteriori attività commerciali».