Il ponte Littorio, monumento alla città evoluta
Il duca d’Aosta all’inaugurazione dell’opera distrutta nel 1944 dai tedeschi
PESCARA. Oggi Il Centro regala la fotografia di Ponte Littorio: un’opera che non esiste più e che, nella sua breve vita, ha simboleggiato le illusioni di gloria e gli amari disinganni di Pescara sotto il fascismo. Lo potete vedere qui accanto, maestoso sopra lo scorrere del fiume, attraversato da automobili del tempo, biciclette e persino da madri col passeggino. Le aquile sulle colonne svettano come lingue di fuoco. Sullo sfondo, il bagno borbonico e le case della Pescara antica, in un’atmosfera da dipinto di Cascella.
UN NUOVO CORSO. Ha scritto lo storico Luigi Lopez, in «Pescara dalle origini ai giorni nostri», che «I ponti sono la spia più evidente dell’evoluzione della città. Se al piccolo borgo militare fu un tempo sufficiente un ponte di legno, poi sostituito dal laborioso e pericoloso traghetto sulla scafa e poi dal risonante stretto ponte a battelli; se al borgo che diventava città fu necessario un ponte a gabbia di ferro, ben presto anche questa struttura risultò inadeguata».
Pescara era in continua crescita: se nel 1921 contava 26.000 abitanti, dieci anni più tardi ne erano diventati 38.000, e sarebbero saliti a 45.000 nel 1936: un incremento demografico secondo solo a quello di Roma. Ponte Littorio fu un’opera propagandistica, ma a modo suo grandiosa. Disegnato da Cesare Bazzani, era largo 18 metri, di cui 12 di carreggiata, e lungo 106.
Aveva quattro colonne che sorreggevano altrettante aquile di bronzo e sul cui basamento erano scolpiti i distici latini che Domenico Tinozzi aveva scritto per l’unificazione di Pescara con Castellamare. Aveva quattro antenne portabandiera e portalampade alte 20 metri, e due balconi centrali che affacciavano sul porto e sul mare.
Su quattro basamenti di travertino poggiavano quattro statue femminili di bronzo, opera di Vincentino Michetti, che rappresentavano l’agricoltura, la pastorizia, l’industria e la pesca: le pietre miliari dell’economia cittadina. All’inaugurazione, il 14 agosto 1933, vennero il duca d’Aosta, il segretario nazionale del Partito fascista Giuseppe Starace, il ministro dei Lavori pubblici e gli alti gerarchi Italo Balbo e Guido Buffarini Guidi.
L’invito del podestà Giacinto Forcella obbligava tutti ad indossare la camicia nera e le decorazioni, ma dispensava dall’uso della giacca: il caldo era troppo grande. Fin dal principio il ponte fu amato, ma anche criticato, perché le quattro colonne, pur belle in sé, spezzavano l’armonia e la sobrietà della costruzione, diversamente da quanto accadeva per il Ponte della Vittoria sull’Arno, a Firenze.
Ma a questa critica, scrive ancora Lopez, si rispondeva che i due ponti «erano calati in ambienti naturali ben diversi, ricco di storia ma scarso di natura quello di Firenze; al centro di un vasto orizzonte, circondato dalla luce e dalla vicinanza del mare e dal cielo di alta montagna quello di Pescara».
PESCARA FASCISTA. Nata per volontà del ministro Giovanni Acerbo e di Gabriele D’Annunzio, elevata dal fascismo a capoluogo di provincia, Pescara fu una città fascistissima. Nel «rapporto al Duce» presentato dal federale Nicola Volpe il 26 gennaio 1942, si diceva che le uniche manifestazioni d’insoddisfazione erano dovute a carenze alimentari e che la cittadinanza seguiva con entusiasmo le manifestazioni del regime.
«Lo stato d’animo della popolazione», scriveva Volpe, «è di serena comprensione delle dure necessità della guerra, che si combatte non disgiunta da una quasi generale certezza nella vittoria». Organizzazioni antifasciste non ce n’erano, e del resto non avrebbero potuto esserci perché la censura esercitava un durissimo controllo su tutta la provincia: in «Martirio di una città»,Antonio Bertillo e Giampietro Pittarello raccontano che nel 1940 un commerciante e un fabbricante di laterizi di Alanno, Pasquale Odoardi e Mario Verrocchio, vennero condannati a uno e due anni di confino per aver raccontato barzellette sul fascismo.
Nel 1941 fu arrestato l’avvocato Leo Leone, nel quale il prefetto Alberto Varano aveva ravvisato «la volontà acre del superinformato e del supercritico diretta a far sbollire il sano entusiasmo dei buoni cittadini».
I testimoni di Geova vennero messi fuori legge per il loro antimilitarismo. «In pratica», scrivono Bertillo e Pittarello, «si rischiava di commettere reato anche solo parlando della guerra». La censura controllava anche la corrispondenza privata: dalle lettere venivano stralciate le frasi che non piacevano ai rappresentanti del regime, e i loro autori venivano condotti in Questura.
L’ILLUSIONE. Volpe aveva scritto che i pescaresi «comprendevano le necessità della guerra»: ma sarebbe stato più corretto dire che erano quasi all’oscuro della guerra. Nodo di collegamento viario fra il nord e il sud e fra l’est e l’ovest della penisola, giovane e perciò fragile, Pescara avrebbe dovuto aspettarsi un attacco.
Invece era indifesa: l’aeroporto fungeva da scuola d’addestramento per piloti d’aerei da caccia, ma era quasi privo di velivoli che potessero funzionare. Non v’erano armi contraeree o batterie antinave che potessero contrastare un possibile attacco nemico. Non c’erano rifugi antiaerei, né erano state organizzate squadre di soccorso ad eccezione di quella della Croce rossa. Ma soprattutto, i cittadini vivevano fuori dal mondo.
La propaganda ripeteva che l’Italia aveva i migliori aviatori, ed era vero; «ma», dice lo storico Marco Patricelli, «l’industria bellica produceva solo aerei da raid. Avevamo progettato velivoli potentissimi, ma ci mancava il metallo per costruirli». Come molti italiani, i pescaresi erano convinti che nulla di male potesse venire loro dal cielo.
Continuavano ad andare a passeggio, al cinema e al mare, come se la guerra fosse finita. Invece, doveva ancora arrivare. E quando arrivò, con i bombardamenti del 31 agosto e del 14 settembre 1943, si assisté all’esplosione di un terrore incontrollato. «Era incredibile», ricorda il professor Nando Filograsso in «Pescara nella bufera» di Antonio Bertillo e Dimitri Franco, «come tanta gente fosse determinata ad andarsene, come se avesse coltivato in segreto e da tempo quell’idea».
I tedeschi disseminavano la città di mine e requisivano tutto ciò che potesse servire per la loro industria bellica, incluse le statue di bronzo. Il 31 ottobre 1943, giorno della festa di Cristo Re, l’abate Pasquale Brandaro non poté usare le campane del Sacro Cuore perché i tedeschi le avevano portate via.
Del resto a Pescara non c’era più nessuno. Andò a Portanuova, dove era rimasta un po’ di gente, e suonò le campane di San Cetteo. Nel pomeriggio, i tedeschi portarono via anche quelle. La stessa fine fecero le statue di ponte Littorio.
L’EPILOGO. La guerra era incrudelita: gli alleati bombardavano a tappeto, sperando che prima o poi il terrore spingesse la popolazione a insorgere contro il governo. In una Pescara così distrutta e vuota da somigliare a un paesaggio lunare, i genieri tedeschi scavarono buche sul ponte Littorio, trasportarono casse d’esplosivo e le sotterrarono.
Il 9 giugno 1944, il ponte saltò via, e con lui saltarono via tutte le illusioni della Pescara tronfia e incosciente, ma forse soprattutto ingannata, del fascismo. Le mine tedesche restarono sulla spiaggia fino ad oltre la guerra, e vennero scoperte nel volgere d’una decina d’anni, mano a mano che la gente, camminando, ci finiva sopra e saltava per aria a pezzi.
UN NUOVO CORSO. Ha scritto lo storico Luigi Lopez, in «Pescara dalle origini ai giorni nostri», che «I ponti sono la spia più evidente dell’evoluzione della città. Se al piccolo borgo militare fu un tempo sufficiente un ponte di legno, poi sostituito dal laborioso e pericoloso traghetto sulla scafa e poi dal risonante stretto ponte a battelli; se al borgo che diventava città fu necessario un ponte a gabbia di ferro, ben presto anche questa struttura risultò inadeguata».
Pescara era in continua crescita: se nel 1921 contava 26.000 abitanti, dieci anni più tardi ne erano diventati 38.000, e sarebbero saliti a 45.000 nel 1936: un incremento demografico secondo solo a quello di Roma. Ponte Littorio fu un’opera propagandistica, ma a modo suo grandiosa. Disegnato da Cesare Bazzani, era largo 18 metri, di cui 12 di carreggiata, e lungo 106.
Aveva quattro colonne che sorreggevano altrettante aquile di bronzo e sul cui basamento erano scolpiti i distici latini che Domenico Tinozzi aveva scritto per l’unificazione di Pescara con Castellamare. Aveva quattro antenne portabandiera e portalampade alte 20 metri, e due balconi centrali che affacciavano sul porto e sul mare.
Su quattro basamenti di travertino poggiavano quattro statue femminili di bronzo, opera di Vincentino Michetti, che rappresentavano l’agricoltura, la pastorizia, l’industria e la pesca: le pietre miliari dell’economia cittadina. All’inaugurazione, il 14 agosto 1933, vennero il duca d’Aosta, il segretario nazionale del Partito fascista Giuseppe Starace, il ministro dei Lavori pubblici e gli alti gerarchi Italo Balbo e Guido Buffarini Guidi.
L’invito del podestà Giacinto Forcella obbligava tutti ad indossare la camicia nera e le decorazioni, ma dispensava dall’uso della giacca: il caldo era troppo grande. Fin dal principio il ponte fu amato, ma anche criticato, perché le quattro colonne, pur belle in sé, spezzavano l’armonia e la sobrietà della costruzione, diversamente da quanto accadeva per il Ponte della Vittoria sull’Arno, a Firenze.
Ma a questa critica, scrive ancora Lopez, si rispondeva che i due ponti «erano calati in ambienti naturali ben diversi, ricco di storia ma scarso di natura quello di Firenze; al centro di un vasto orizzonte, circondato dalla luce e dalla vicinanza del mare e dal cielo di alta montagna quello di Pescara».
PESCARA FASCISTA. Nata per volontà del ministro Giovanni Acerbo e di Gabriele D’Annunzio, elevata dal fascismo a capoluogo di provincia, Pescara fu una città fascistissima. Nel «rapporto al Duce» presentato dal federale Nicola Volpe il 26 gennaio 1942, si diceva che le uniche manifestazioni d’insoddisfazione erano dovute a carenze alimentari e che la cittadinanza seguiva con entusiasmo le manifestazioni del regime.
«Lo stato d’animo della popolazione», scriveva Volpe, «è di serena comprensione delle dure necessità della guerra, che si combatte non disgiunta da una quasi generale certezza nella vittoria». Organizzazioni antifasciste non ce n’erano, e del resto non avrebbero potuto esserci perché la censura esercitava un durissimo controllo su tutta la provincia: in «Martirio di una città»,Antonio Bertillo e Giampietro Pittarello raccontano che nel 1940 un commerciante e un fabbricante di laterizi di Alanno, Pasquale Odoardi e Mario Verrocchio, vennero condannati a uno e due anni di confino per aver raccontato barzellette sul fascismo.
Nel 1941 fu arrestato l’avvocato Leo Leone, nel quale il prefetto Alberto Varano aveva ravvisato «la volontà acre del superinformato e del supercritico diretta a far sbollire il sano entusiasmo dei buoni cittadini».
I testimoni di Geova vennero messi fuori legge per il loro antimilitarismo. «In pratica», scrivono Bertillo e Pittarello, «si rischiava di commettere reato anche solo parlando della guerra». La censura controllava anche la corrispondenza privata: dalle lettere venivano stralciate le frasi che non piacevano ai rappresentanti del regime, e i loro autori venivano condotti in Questura.
L’ILLUSIONE. Volpe aveva scritto che i pescaresi «comprendevano le necessità della guerra»: ma sarebbe stato più corretto dire che erano quasi all’oscuro della guerra. Nodo di collegamento viario fra il nord e il sud e fra l’est e l’ovest della penisola, giovane e perciò fragile, Pescara avrebbe dovuto aspettarsi un attacco.
Invece era indifesa: l’aeroporto fungeva da scuola d’addestramento per piloti d’aerei da caccia, ma era quasi privo di velivoli che potessero funzionare. Non v’erano armi contraeree o batterie antinave che potessero contrastare un possibile attacco nemico. Non c’erano rifugi antiaerei, né erano state organizzate squadre di soccorso ad eccezione di quella della Croce rossa. Ma soprattutto, i cittadini vivevano fuori dal mondo.
La propaganda ripeteva che l’Italia aveva i migliori aviatori, ed era vero; «ma», dice lo storico Marco Patricelli, «l’industria bellica produceva solo aerei da raid. Avevamo progettato velivoli potentissimi, ma ci mancava il metallo per costruirli». Come molti italiani, i pescaresi erano convinti che nulla di male potesse venire loro dal cielo.
Continuavano ad andare a passeggio, al cinema e al mare, come se la guerra fosse finita. Invece, doveva ancora arrivare. E quando arrivò, con i bombardamenti del 31 agosto e del 14 settembre 1943, si assisté all’esplosione di un terrore incontrollato. «Era incredibile», ricorda il professor Nando Filograsso in «Pescara nella bufera» di Antonio Bertillo e Dimitri Franco, «come tanta gente fosse determinata ad andarsene, come se avesse coltivato in segreto e da tempo quell’idea».
I tedeschi disseminavano la città di mine e requisivano tutto ciò che potesse servire per la loro industria bellica, incluse le statue di bronzo. Il 31 ottobre 1943, giorno della festa di Cristo Re, l’abate Pasquale Brandaro non poté usare le campane del Sacro Cuore perché i tedeschi le avevano portate via.
Del resto a Pescara non c’era più nessuno. Andò a Portanuova, dove era rimasta un po’ di gente, e suonò le campane di San Cetteo. Nel pomeriggio, i tedeschi portarono via anche quelle. La stessa fine fecero le statue di ponte Littorio.
L’EPILOGO. La guerra era incrudelita: gli alleati bombardavano a tappeto, sperando che prima o poi il terrore spingesse la popolazione a insorgere contro il governo. In una Pescara così distrutta e vuota da somigliare a un paesaggio lunare, i genieri tedeschi scavarono buche sul ponte Littorio, trasportarono casse d’esplosivo e le sotterrarono.
Il 9 giugno 1944, il ponte saltò via, e con lui saltarono via tutte le illusioni della Pescara tronfia e incosciente, ma forse soprattutto ingannata, del fascismo. Le mine tedesche restarono sulla spiaggia fino ad oltre la guerra, e vennero scoperte nel volgere d’una decina d’anni, mano a mano che la gente, camminando, ci finiva sopra e saltava per aria a pezzi.