Il vescovo: «E’ colpa della giustizia lenta». Il pm: «Non è vero»
Le parole di monsignor Forte innescano la reazione della procura. E l’avvocato dell’omicida accusa la vittima di averlo provocato
VASTO. Una città divisa in due. Ma non solo. Anche le autorità cittadine, i politici e la Chiesa sono intervenuti sulla tragedia. Spicca fra tutti il commento di un autorevole rappresentante della Chiesa, monsignor Bruno Forte arcivescovo della diocesi Chieti-Vasto. «Un senso di dolore per tre giovani vite spezzate, quella della ragazza morta per l'incidente, quella del giovane ucciso e quella dell'assassino, perché la sua esistenza ora è stata stravolta in maniera profonda», dice Forte. «Quello che addolora molto è che questo giovane esasperato dalle lentezze di una giustizia che non dava segni, nei confronti di colui che aveva investito la moglie, abbia reagito facendosi, secondo lui, giustizia da sé. La vendetta non è mai giustizia. La vendetta produce solo ulteriore sofferenza e ulteriori mali».
«Da una parte il no assoluto a cercare giustizia da sé - spiega l’arcivescovo - dall'altra parte però una sollecitazione alla giustizia perché sia più sollecita. Una giustizia lenta non è più giustizia e produce anche effetti come questi tragici a cui si è assistito a Vasto». Immediata la replica della magistratura . «Dal momento dell'incidente stradale che ha visto la morte di Roberta Smargiassi, il primo luglio 2016, all'udienza preliminare, che doveva essere celebrata il prossimo 21 febbraio a carico di Italo D'Elisa, sarebbero passati meno di 8 mesi», ricordano in un comunicato congiunto, il presidente del Tribunale, Bruno Giangiacomo e il procuratore capo, Giampiero Di Florio. «Otto mesi sono un tempo che non solo non evidenzia alcuna lentezza nello svolgimento delle indagini, ma segnala, al contrario, la celere trattazione del processo, respingendo qualsiasi diversa valutazione non fondata sui fatti e priva di qualsiasi riscontro in essi. L'auspicio di aver chiarito una volta per tutte che la vicenda in esame non possa essere catalogata come episodio di lentezza della giustizia».
E in effetti il 21 febbraio D'Elisa sarebbe comparso davanti al giudice. Ma per uno degli avvocati di Fabio Di Lello, Giovanni Cerella, la rabbia dell'omicida sarebbe stata la conseguenza dell'atteggiamento della vittima. «D'Elisa provocava Di Lello anche quando gli passava accanto con il motorino», dice. Ma la circostanza è smentita dallo zio di Italo, Alessandro D'Elisa e dalle cugine, Fabiola e Marzia. «Italo non aveva il motorino, si spostava in bicicletta. Era un ragazzo che soffriva maledettamente. Per colpa di quell'incidente ha perso il lavoro ed è stato allontanato dalla protezione civile. Italo stava male». Stava tanto male anche Fabio Di Lello. Lo conferma uno zio, Vincenzo Verretti.
«Ha ucciso perché l’amore ha distrutto la sua psiche. Anche i suoi genitori e quelli di Roberta erano distrutti ma cercavano di calmarlo. Ma lui ormai viveva nel ricordo di lei. Non ha mai elaborato il lutto. Nessuno della sua famiglia immaginava che quel dolore che aveva cercato di assopire anche con l'aiuto di un medico, si trasformasse in odio omicida», dice l'uomo scuotendo la testa. (p.c.)