a Pescara
L’ex boss della Magliana: "Mi ha salvato la nascita di mia figlia"
Mancini parla di sé e della storia d’Italia alla rassegna “Il fiume e la memoria”: "Non sono mai stato un pentito, ma vi spiego perché oggi mi dedico ai disabili"
PESCARA. Pescara ha accolto un ospite speciale, Antonio Mancini, ex boss della banda della Magliana, l’organizzazione criminale che nel passaggio tra prima e seconda Repubblica mise a ferro e fuoco l’Italia intera. Per la manifestazione guidata da Milo Vallone e Luca Pompei, “Il fiume e la memoria”, Mancini è stato invitato ieri a parlare di sé e della sua incredibile storia, e a presentare lo spettacolo teatrale che porterà in giro per l’Italia proprio insieme a Vallone. Noto in quegli anni come l’Accattone, Mancini oggi è collaboratore di giustizia e uomo libero.
Mancini, lei è abruzzese?
Certo, sono nato a Castiglione a Casauria, dove ho fatto tutte le elementari, poi a un certo punto, siccome le possibilità erano quelle che erano, i miei genitori hanno deciso di trasferirsi a Roma, scegliendo però la zona più sbagliata... La borgata di San Basilio, dove mi sono trovato a vivere tra quelli che definisco due blocchi: il blocco di mio papà, che la mattina si alzava alle 5, andava al cantiere, si faceva un mazzo tanto, aspettando che arrivasse il famoso “baffone”, cioè Stalin, ma la sera sulla tavola c’era sempre la minestra fatta col brodo star. Io lo dico sempre, la colpa di quello che sono diventato la do tutta al brodo star! L’altro blocco era quello di chi aveva le belle macchine, di quelli che facevano la bella vita. Io, quando è stato il momento di decidere da che parte stare, ho lanciato la moneta in aria e mi sono ritrovato schierato dalla parte del secondo blocco. Diciamo che ho deciso di vivere un giorno da leone piuttosto che cento da pecora, ma non perché mio papà era pecora, ma perché Stalin non arrivava, non arrivava nessuno...
In più di una occasione, ha dichiarato che non si ritiene un “pentito”
È una parola che detesto, io non sono pentito! Il pentimento non è una cosa che vengo a confessare alla giornalista, o al pubblico di Pescara, o a chicchessia, il pentimento è una cosa tra me e quello che sta lassù, sempre che esista. Sono semplicemente diventato un uomo nuovo, ho deciso di scendere dalla giostra, nonostante questo non mi abbia portato alcun guadagno.
E perché ha scelto di collaborare?
La banda non era più la banda originaria, era diventata una pozzanghera di sangue, soldi, chiacchiere, di servizi segreti, politica, non ce se capiva più niente. De Petris, il cosiddetto Renatino, addirittura era pronto a entrare in Parlamento. Quello aveva ucciso con me, e alla fine è morto incensurato: ma come ha fatto?! Io lo so: se non veniva ucciso, lui ora stava in Parlamento, e non avrebbe certamente fatto la sua brutta figura visto chi ci rappresenta oggi. Poi, ci sono ragioni personali, come quella di mia figlia Natascia, nata quando ero detenuto qui a San Donato: pensi che la vedevo dai vetri blindati... no, lei non poteva fare la mia stessa fine.
Qual è stato il giorno più bello della sua vita?
Quando ho visto passare un pullman al centro di Jesi, dove adesso vivo, e dentro c'era questa piccola faccia buffa... Mi ha folgorato, e non faccio retorica, glielo assicuro. Quel fatto mi ha dato l'impulso a dare qualcosa alla società, oltre che alla giustizia. E quei poliziotti che ho odiato tutta la vita, quando gli ho detto che volevo lavorare con i disabili di Jesi, hanno fatto la guerra per renderlo possibile.
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