L’ex prefetto rischia 12 anni: la difesa scarica sulla Provincia
Provolo non si presenta nell’udienza più delicata. L’avvocato: l’hanno tenuto all’oscuro di tutto
PESCARA. «Siamo consapevoli della straordinaria gravità dei fatti in discussione, del dolore enorme delle famiglie delle vittime, ma consideriamo altrettanto intollerabile e doloroso l'idea di condanna di un innocente. Il suo dolore non pesa un milligrammo di meno del dolore dei familiari».
Così ha esordito l'avvocato Gian Domenico Caiazza che con il collega Sergio Della Rocca difende l'ex prefetto di Pescara Francesco Provolo, uno dei 30 imputati del processo per la strage di Rigopiano dove persero la vita 29 persone il 18 gennaio del 2017, che si tiene davanti al gup Gianluca Sarandrea con il rito abbreviato.
LA PENA PIÙ ALTA.
È uno dei 30, Provolo,ma è anche quello che rischia la pena più alta: 12 anni di reclusione, sommando i reati contestati nel processo madre sul disastro con il filone del depistaggio. Caiazza lascia subito intendere il tenore del suo intervento nel corso del quale non risparmia colpi per nessuno, prima fra tutti la pubblica accusa, lanciando poi bordate anche alla Provincia e ad alcuni suoi dirigenti.
NON INFORMATO.
«Se c'è un dato documentale insuperabile», dice il penalista, «è che nessuno ha mai informato i tavoli organizzati dalla prefettura, aperti secondo gli obblighi di legge che sono stati puntualmente eseguiti dal prefetto. Nessuno ha mai fatto pervenire informazioni sulla situazione che si andava complicando sulla provinciale che porta a Rigopiano». E poi inizia a smontare pezzo pezzo e parola per parola il capo di imputazione contro il suo assistito, in particolare sulla contestata apertura della sala operativa e del Ccs (centro coordinamento per la sicurezza): «Le parole sono pietre», dice rivolgendosi al procuratore Giuseppe Bellelli e ai sostituti Andrea Papalia e Anna Benigni, «12 anni di reclusione con l'abbreviato, partendo da 18 anni, è una pena da omicidio volontario, quindi bisogna essere responsabili delle parole che si usano». E spiega che Provolo aprì effettivamente la sala operativa sin dal 16 gennaio e non dalla mattina del 18 come gli contesta la procura.
FUNZIONI SVOLTE.
«Sono le funzioni che contano, non il luogo in cui si esercitano. Il 16 il prefetto dà formalmente ordine di aprire la sala operativa e il Ccs, relativamente ad una delle sue funzioni: quella sui trasporti, circolazione e viabilità. I funzionari è vero che non sono riuniti in un'unica stanza ma operano ugualmente dalle loro stanze e questo emerge anche dalle numerose segnalazioni che il funzionario Verzella invia ai vari enti firmandosi come responsabile della sala operativa già dal 16 gennaio». E in merito alla riunione del tavolo tecnico dice: «Quello che abbiamo dimostrato carte alla mano è che comunque attorno a quel tavolo c’erano 16 persone di tutti gli enti utili per gestire l'emergenza, come ribadiscono anche i periti del giudice: che poi sono le stesse persone che avrebbero costituito il Ccs e quindi non possiamo definire responsabilità di questa gravità su un dato nominalistico».
LA TURBINA IN TILT.
Anche sulla mancanza di una turbina per liberare la strada che portava all'hotel, Caiazza fornisce una sua spiegazione. «Il tema centrale del processo è che non c'è una turbina per liberare quella strada la notte tra il 17 e il 18 gennaio. Ma il tavolo che stava operando in prefettura non è stato investito di questa notizia, che compare sulla scena del processo a partire dalla notte del 18 gennaio, e rimane sconosciuta a Ccs e prefetto fino alla tragedia. A quel tavolo», sottolinea, «c'era anche Mauro Di Blasio, responsabile della viabilità per la Provincia, che non ha mai detto nulla sulla situazione di Rigopiano, nonostante si stesse scambiando messaggi con altri provinciali».
LA MOSSA DI CAIAZZA.
È qui che il difensore dell’ex prefetto di Pescara tira fuori la "cerchia ristretta": «Abbiamo la prova insuperabile e formidabile che le criticità sulla strada erano a conoscenza di una stretta cerchia di persone che pensavano di risolvere il problema fra di loro. Scelgono gli Enti con i quali interloquire: presidente della giunta, capo di gabinetto regionale, ma non la Prefettura. Noi non possiamo rispondere di cose di cui non veniamo investiti». E infine: «Qualunque intervento per liberare la strada con una turbina sarebbe stato inutile: non sarebbe mai arrivata in tempo e questa conclusione è decisiva per il reato omissivo».
I PARENTI REAGISCONO.
È quest’ultima affermazione a mandare su tutte le furie familiari delle vittime. «Caiazza avrebbe potuto evitare di dire quella frase», dice Alessio Feniello, padre di Stefano, uno dei 29 morti. Ci sono persone che sono rimaste anche 40 ore sotto le macerie prima di morire. Da padre questa frase mi ha fatto molto male». E Giampaolo Matrone, un sopravvissuto, incalza: «Io sarei rimasto parecchie ore in meno sotto le macerie se fosse arrivata quella turbina. È giusto che difendano i propri assistiti, ma non così. E mi dà molto fastidio quando gli avvocati vogliono far capire che i loro clienti stanno passando giorni e anni d'inferno: la nostra tragedia non si paragona a nessuno».
LA TELEFONATA DI D’ANGELO. L'avvocatessa Emanuela Rosa, che assiste il fratello di Gabriele D'Angelo, il cameriere morto sotto le macerie, autore della richiesta telefonica di aiuto rimasta inascoltata dalla Prefettura, interviene così sull'arringa del collega: «Ancora una volta viene omessa questa telefonata (minimizzata dalla difesa di Provolo, ndc). È stata fatta una ricostruzione assolutamente imprecisa e lacunosa. Alle 11,38 del 18 gennaio, D'Angelo chiama per urlare la sua richiesta di aiuto e chiedere l'evacuazione dell'hotel. E oggi ci vengono a dire che quella telefonata era solo per comunicare il numero degli ospiti dell'hotel: nulla di più falso».
LE ALTRE DIFESE.
Dopo l'intervento di Della Rocca, che ha puntellato alcuni aspetti della difesa di Provolo, scende in campo Daniele Ripamonti, legale della dirigente prefettizia Ida De Cesaris, che approfondisce il capitolo depistaggio. «Ho prospettato al giudice due aspetti: quello giuridico per l’impossibilità di contestare anche astrattamente il reato di depistaggio a soggetti che sono imputati del reato che si vorrebbe sviare. Nel merito ho invece rilevato che la procura ha offerto un racconto che è totalmente sfornito di elementi di riscontro: deduttivo e senza alcuna prova del depistaggio». Le richieste al giudice sono di assoluzione per entrambi gli imputati. Si riprende il 15 febbraio.
Così ha esordito l'avvocato Gian Domenico Caiazza che con il collega Sergio Della Rocca difende l'ex prefetto di Pescara Francesco Provolo, uno dei 30 imputati del processo per la strage di Rigopiano dove persero la vita 29 persone il 18 gennaio del 2017, che si tiene davanti al gup Gianluca Sarandrea con il rito abbreviato.
LA PENA PIÙ ALTA.
È uno dei 30, Provolo,ma è anche quello che rischia la pena più alta: 12 anni di reclusione, sommando i reati contestati nel processo madre sul disastro con il filone del depistaggio. Caiazza lascia subito intendere il tenore del suo intervento nel corso del quale non risparmia colpi per nessuno, prima fra tutti la pubblica accusa, lanciando poi bordate anche alla Provincia e ad alcuni suoi dirigenti.
NON INFORMATO.
«Se c'è un dato documentale insuperabile», dice il penalista, «è che nessuno ha mai informato i tavoli organizzati dalla prefettura, aperti secondo gli obblighi di legge che sono stati puntualmente eseguiti dal prefetto. Nessuno ha mai fatto pervenire informazioni sulla situazione che si andava complicando sulla provinciale che porta a Rigopiano». E poi inizia a smontare pezzo pezzo e parola per parola il capo di imputazione contro il suo assistito, in particolare sulla contestata apertura della sala operativa e del Ccs (centro coordinamento per la sicurezza): «Le parole sono pietre», dice rivolgendosi al procuratore Giuseppe Bellelli e ai sostituti Andrea Papalia e Anna Benigni, «12 anni di reclusione con l'abbreviato, partendo da 18 anni, è una pena da omicidio volontario, quindi bisogna essere responsabili delle parole che si usano». E spiega che Provolo aprì effettivamente la sala operativa sin dal 16 gennaio e non dalla mattina del 18 come gli contesta la procura.
FUNZIONI SVOLTE.
«Sono le funzioni che contano, non il luogo in cui si esercitano. Il 16 il prefetto dà formalmente ordine di aprire la sala operativa e il Ccs, relativamente ad una delle sue funzioni: quella sui trasporti, circolazione e viabilità. I funzionari è vero che non sono riuniti in un'unica stanza ma operano ugualmente dalle loro stanze e questo emerge anche dalle numerose segnalazioni che il funzionario Verzella invia ai vari enti firmandosi come responsabile della sala operativa già dal 16 gennaio». E in merito alla riunione del tavolo tecnico dice: «Quello che abbiamo dimostrato carte alla mano è che comunque attorno a quel tavolo c’erano 16 persone di tutti gli enti utili per gestire l'emergenza, come ribadiscono anche i periti del giudice: che poi sono le stesse persone che avrebbero costituito il Ccs e quindi non possiamo definire responsabilità di questa gravità su un dato nominalistico».
LA TURBINA IN TILT.
Anche sulla mancanza di una turbina per liberare la strada che portava all'hotel, Caiazza fornisce una sua spiegazione. «Il tema centrale del processo è che non c'è una turbina per liberare quella strada la notte tra il 17 e il 18 gennaio. Ma il tavolo che stava operando in prefettura non è stato investito di questa notizia, che compare sulla scena del processo a partire dalla notte del 18 gennaio, e rimane sconosciuta a Ccs e prefetto fino alla tragedia. A quel tavolo», sottolinea, «c'era anche Mauro Di Blasio, responsabile della viabilità per la Provincia, che non ha mai detto nulla sulla situazione di Rigopiano, nonostante si stesse scambiando messaggi con altri provinciali».
LA MOSSA DI CAIAZZA.
È qui che il difensore dell’ex prefetto di Pescara tira fuori la "cerchia ristretta": «Abbiamo la prova insuperabile e formidabile che le criticità sulla strada erano a conoscenza di una stretta cerchia di persone che pensavano di risolvere il problema fra di loro. Scelgono gli Enti con i quali interloquire: presidente della giunta, capo di gabinetto regionale, ma non la Prefettura. Noi non possiamo rispondere di cose di cui non veniamo investiti». E infine: «Qualunque intervento per liberare la strada con una turbina sarebbe stato inutile: non sarebbe mai arrivata in tempo e questa conclusione è decisiva per il reato omissivo».
I PARENTI REAGISCONO.
È quest’ultima affermazione a mandare su tutte le furie familiari delle vittime. «Caiazza avrebbe potuto evitare di dire quella frase», dice Alessio Feniello, padre di Stefano, uno dei 29 morti. Ci sono persone che sono rimaste anche 40 ore sotto le macerie prima di morire. Da padre questa frase mi ha fatto molto male». E Giampaolo Matrone, un sopravvissuto, incalza: «Io sarei rimasto parecchie ore in meno sotto le macerie se fosse arrivata quella turbina. È giusto che difendano i propri assistiti, ma non così. E mi dà molto fastidio quando gli avvocati vogliono far capire che i loro clienti stanno passando giorni e anni d'inferno: la nostra tragedia non si paragona a nessuno».
LA TELEFONATA DI D’ANGELO. L'avvocatessa Emanuela Rosa, che assiste il fratello di Gabriele D'Angelo, il cameriere morto sotto le macerie, autore della richiesta telefonica di aiuto rimasta inascoltata dalla Prefettura, interviene così sull'arringa del collega: «Ancora una volta viene omessa questa telefonata (minimizzata dalla difesa di Provolo, ndc). È stata fatta una ricostruzione assolutamente imprecisa e lacunosa. Alle 11,38 del 18 gennaio, D'Angelo chiama per urlare la sua richiesta di aiuto e chiedere l'evacuazione dell'hotel. E oggi ci vengono a dire che quella telefonata era solo per comunicare il numero degli ospiti dell'hotel: nulla di più falso».
LE ALTRE DIFESE.
Dopo l'intervento di Della Rocca, che ha puntellato alcuni aspetti della difesa di Provolo, scende in campo Daniele Ripamonti, legale della dirigente prefettizia Ida De Cesaris, che approfondisce il capitolo depistaggio. «Ho prospettato al giudice due aspetti: quello giuridico per l’impossibilità di contestare anche astrattamente il reato di depistaggio a soggetti che sono imputati del reato che si vorrebbe sviare. Nel merito ho invece rilevato che la procura ha offerto un racconto che è totalmente sfornito di elementi di riscontro: deduttivo e senza alcuna prova del depistaggio». Le richieste al giudice sono di assoluzione per entrambi gli imputati. Si riprende il 15 febbraio.