«Mia madre Rossana salvata da un trapianto in Abruzzo»
La giornalista Marianna Aprile: mamma “cliente abituale” dell’Unità Trapianti all’Aquila
«Parliamo subito di una cosa che mi sta a cuore. Ti ricordi di Nicholas Green?» (Nota: è la prima volta che l’intervistato intervista l’intervistatore. Ma funziona così con Marianna Aprile, la giornalista pasionaria che accompagna le estati degli italiani insieme a Luca Telese (il direttore di questo giornale, così denuncio immediatamente il conflitto di interessi).
Certo, Marianna, mi ricordo di Nicholas…
«Ecco. E allora sai bene cosa successe in quel tragico settembre del 1994. Nicholas era un bambino americano di sette anni. Era in vacanza in Italia con la famiglia. Ma alla fine dell’estate di quell’anno, la macchina in cui viaggiava con il padre, la madre e la sorellina di quattro anni fu scambiata da mafiosi locali per quella di qualcun altro. E crivellata di colpi. Nicholas morì qualche giorno dopo, a Messina».
E…?
«E dalla sua morte, da quella morte ingiusta e dolorosa e straziante che segnò l’opinione pubblica, “ri-ebbero” la vita sette persone. Sette italiani che devono a quel bambino, e alla generosa civiltà dei suoi genitori, amore, amore e gratitudine».
Perché me lo dici così turbata e incazzata?
«Dopo Nicholas ci fu uno straordinario incremento di donazione degli organi. Gli italiani fecero un balzo di decine di anni in poche settimane, uscimmo da un medioevo cognitivo, ma ora, trent’anni dopo, ci siamo ripiombati».
Addirittura?
«Addirittura. Nel 2023, su cento italiani che hanno rinnovato la carta d’identità e hanno fatto, come prevede la legge, la dichiarazione di volontà sulla destinazione dei propri organi dopo la morte, sai quanti hanno acconsentito alla donazione?»
Dimmi.
«Poco più di 20 persone».
Un dato preoccupante, sicuramente.
«Io direi scioccante. Il 40% degli italiani ha preferito non fare nessuna scelta, mentre il 38% ha negato il consenso all’espianto. E anche le percentuali dei familiari che acconsentono a donare gli organi dei loro cari, sono bassissime. Diciamolo, è vergognoso».
Perché accade?
«Non lo capisco. Io sono iscritta all'Aido, dono il sangue, e se domani mi schianto prendano tutto quello che c’è di buono. Prendetevi tutto. A me non serve, sono morta. Ma serve ad altri».
Magari qualcuno ha timore che lo vogliano accoppare anzitempo, magari qualcuno tiene alla resurrezione con tutti gli organi al loro posto…
«Ma non scherziamo. Anche se hai ragione, c’è molta paura… è come se la gente pensasse “se dico di sì poi me li vengono a prendere da vivo”, come succede nel surreale Monty Python, il film cult del 1983. Anche se credo che ci siano altre ragioni alla base di questo incattivimento generale».
Quali?
«La disinformazione, tanta, troppa, crescente. E un po’ brulicano le leggende metropolitane di cui parlavi. Ma soprattutto noi abbiamo un'idea del corpo che è unica, nel mondo».
Quale?
«In Italia c'è una tendenza al pensiero magico. Anche al di là dell'illuminismo, oltre la religione dominante, esprimiamo una cultura pagana. Ancora sopravvive l’aura sacrale dell'integrità del corpo, anche post mortem. È una cultura misterica che è difficilissima da scalfire».
Sarà mica perché siamo permeati di cattolicesimo, l'unica religione nella quale la resurrezione avverrà con il corpo e non solo con l’anima?
«Ma se succede quel miracolo lì, vuoi che nostro Signore non ce li metta altri due reni...? Suggerisco un piccolo esperimento».
Se è facile…
«Facilissimo. Se tutti noi facessimo un giro nei reparti dialisi e osservassimo la gente appesa, dico letteralmente appesa alle macchine cambieremmo idea. Le attese sono infinite».
Quanto?
«Per i reni la lista d'attesa media è di tre anni e due mesi. Per il cuore non ne parliamo. Non è civile, non è giusto. E poi dobbiamo tornare alla solidarietà che abbiamo messo troppo da parte negli ultimi quattro anni».
Quattro?
«Sì, il covid - e soprattutto il post covid - sono stati letali, socialmente. Ci siamo incattiviti, tutti. Dovevamo uscirne migliori. E invece siamo più egoisti, più spaventati, più diffidenti».
Intanto tu fai la tua parte. Domani (oggi ndr) all’Hotel Canadian dell’Aquila conduci una serata destinata alla raccolta di fondi per i trapianti.
«Sì, lo faccio con gratitudine verso questa città, l’Aquila e il Centro trapianti a cui, personalmente, devo molto».
Perché?
«Mia madre è una “cliente abituale”, se mi passi l’ironia, dell'Unità Operativa Trapianti del San Salvatore, l'ospedale dell’Aquila».
Abituale?
«Nel 2003 fece il primo trapianto di rene, che andò benissimo. Il secondo trapianto è stato a giugno di quest’anno».
Lo ha dovuto rifare?
«Mamma ha una malattia autoimmune. Alla lunga anche il rene nuovo è stato aggredito dalla malattia e, quindi, ha smesso di funzionare».
Un calvario.
«Sì, come quello di tutti i malati in dialisi. Mamma lo era da quattro anni e in attesa di un nuovo organo. A giugno l’hanno chiamata per il nuovo trapianto».
Tutto bene, spero.
«Ora sì, ma abbiamo vissuto un’estate impegnativa: è stata ricoverata per tre mesi, per una serie di complicanze. Risolte grazie al cielo e grazie a medici e paramedici».
Beh, in tre mesi sul campo, sempre in ospedale, avrai avuto modo di fare un’inchiesta approfondita su cosa sia diventata la sanità in Italia.
«Medici e paramedici sono eccezionali. Lo dico senza alcuna retorica. Fanno veramente i miracoli. Se le cose funzionano negli ospedali è solo per la buona volontà di chi ci lavora, altrimenti tutto concorrerebbe a far andare male le cose».
Ventuno anni dopo il primo trapianto di tua madre: noti un peggioramento nella sanità?
«Eccome!»
Cosa è cambiato?
«Oggi i sanitari fanno fatica, ma davvero molta fatica, a garantire l'assistenza complessa di cui ha bisogno una persona trapiantata. La generosità di medici, Oss e infermieri, poi riesce a colmare le lacune del sistema. Ma è una pena estenuante».
Dettaglio.
«Ti do un ordine di grandezza: in questi ultimi tre mesi, cioè da quando mia madre è stata trapiantata, il centro del San Salvatore ha eseguito un numero enorme di trapianti: nel mese di ottobre hanno già superato il totale dello scorso anno. Per riuscirci, il personale fa turni massacranti. Stanno in reparto letteralmente 24 ore al giorno. Stando con loro, umanamente, capisci – anche se non te lo dicono – che avrebbero bisogno di riposo. La sensazione è che veramente facciano i salti mortali per far funzionare il Centro come sempre».
Ma è vero che un paziente si deve portare la carta igienica o le medicine da casa?
«Nel caso di mia madre non ce ne è stato bisogno: mamma si muove con la valigetta di tutte le sue medicine. Una trousse completa. Quando mai mancassero, lei comunque è sempre coperta».
Noi siamo passati nel 2019 dal 7% di PIL destinato alla sanità al 6,4% di quest'anno, e siamo in diminuzione. Nel ‘19 la Germania era al 7%, oggi è all’11%. In questi ultimi vent'anni sono state tagliate risorse per 350 miliardi da governi di destra, sinistra, centro, tecnici e di unità nazionale. Perché tanti tagli sul settore che interessa tutti?
«Non so. Ho vissuto diciotto anni in Lombardia, regione considerata eccellenza dell’organizzazione sanitaria italiana, e io non credo sia vero. Però lì ho capito bene una tendenza della politica sanitaria».
Quale?
«Spero di non banalizzare troppo, ma in Lombardia tutte le cose che possiamo definire redditizie in sanità ormai sono in mano ai privati. Negli ospedali pubblici si va a fare l'ordinaria amministrazione, sostanzialmente».
I privati convenzionati sono pubblici, in buona sostanza, ma attraggono pazienti da tutte le regioni indebolendo i sistemi regionali del Sud.
«E questo non va bene. La domanda che farei io è una».
Falla pure.
«Ecco, a chiunque abbia gestito dei soldi in questo Paese, guardando questo modello squilibrato chiederei: che vantaggio c'è a convenzionare così un privato senza garantire l’efficienza del servizio sanitario nazionale?»
Oltre la domanda, dammi una risposta. Che idea ti sei fatta? Interessi economici forti? Oppure regna l’incompetenza?
«Tenderei a escludere l’incompetenza generale. Mi pare altamente improbabile che non ci sia mai stato nessuno in grado di sapere dovere mettere le mani».
E allora?
«Temo che esistano gruppi di pressione e interessi economici molto potenti. In qualche modo si dà per scontato che, siccome servono troppi soldi per far funzionare gli ospedali come dovrebbero, allora si preferisce tamponare. Ma scusa è logico, no?»
Cioè?
«Se voglio che ogni ospedale garantisca l’assistenza che è necessaria universalmente e gratuitamente, con l’aumento di anziani e di richiesta di salute che c’è, servono carriolate di soldi. Se si investe solo in alcuni servizi sanitari, mentre per il resto si convenziona chi le fa, si fa una scelta legittima. Ma bisogna rivendicarla! Lo ripete, pur se inascoltato da tempo, Nino Caltabellota con la sua Fondazione Gimbe. La politica, di destra o di sinistra, dica che ritiene opportuno andare verso un sistema misto, pubblico-privato, se non completamente privatistico. Diciamocelo».
Basato al Nord.
«Ricordi che a In Onda ci occupammo del Pronto Soccorso a pagamento?»
No, non ricordo.
«In un ospedale di Bergamo istituirono un Pronto soccorso a pagamento, mi pare che la tariffa base fosse di 150 euro, indipendentemente dal tipo di codice. Corsia preferenziale solo se pagavi. È un caso estremo che evidenzia il bivio di fronte a cui ci troviamo. Non ci sono i soldi per pagare tutto».
Può essere questo il futuro della sanità? Davvero?
«Lo chiamano “modello lombardo”. La mentalità corrente ormai è quella. In teoria l’assistenza sanitaria è dovuta, la paghi con le tasse. In pratica, invece, siccome le tasse le pagano sempre i soliti scemi e per gli altri si fanno condoni e concordati, stai tre giorni su una barella. E se alla fine accedi alle cure è solo perché alcuni medici e alcuni infermieri lavorano il triplo di quanto preveda il loro contratto».
Come se ne esce?
«Penso alla battaglia – legittima! – che il nostro Paese sta facendo per scorporare il famigerato 2% di Pil destinato alle spese militari, quelle che dobbiamo raggiungere perché abbiamo banalmente sottoscritto un accordo che lo prevede. Proposta: perché una battaglia così non si è mai fatta anche sulla sanità per investire tutto nelle eccellenze? Almeno su questo saremo tutti d’accordo, spero».
Passiamo dagli ospedali alla tv. E facciamo un parallelo: in televisione c'è una tendenza alla privatizzazione dell'informazione?
«Solo perché qualcuno abdica al dovere di informare, non vuol dire che gli altri siano infetti».
Marianna, i talk show, che ben conosci, hanno tutti e sempre le stesse formule e i medesimi ospiti. Come gli aerei di Mussolini, girano da una parte all'altra. Avere voci nuove che entrino nel dibattito politico nazionale, è difficilissimo, se non quasi impossibile.
«Ma no. Non è vero. In Rai sono entrate un sacco di voci nuove quest'anno!»
Nuove? Insomma…
«E poi perché chiedi a me? Io sono una neofita della tv…»
Non prendermi in giro.
«Nell'arco temporale della mia professione, in questi venticinque anni, la televisione rappresenta un pezzettino piccolo piccolo. Da questa parte del teleschermo non ho uno storico. Conosco poco i meccanismi interni e solo per un’esperienza limitata a La7. Da fuori, invece, sono una spettatrice onnivora».
Ma se hai lavorato anche alla Rai.
«Una parentesi. E, peraltro, in un’enclave, a Forrest, su Radio1, con il mio amico Luca Bottura. Finché ce l’hanno fatto fare. Poi ci hanno espulsi».
Dove va il pubblico?
«Dove si informa meglio, dove viene fatta davvero informazione. Pensa a cosa è successo quest’anno a Rai Tre».
Parli della fuga (o cacciata?) dei big, da Fazio a Berlinguer?
«Sì. Un certo tipo di pubblico che era abituato ad accendere Rai Tre per essere informato, oggi, salvo encomiabili eccezioni, non trova più quello che cercava. E lo insegue altrove. Gli innesti hanno bisogno di tempo per germogliare».
Risposta criptica.
«No, chiarissima. Anche le trasmissioni che sono trasmigrate e che hanno avuto performance non all’altezza della loro storia, si faranno. Tutti siamo rimasti stupiti alla notizia di Bianca Berlinguer che andava nella bocca del caimano. Ma questo è un problema del nostro immaginario. Lo spettatore cerca altro».
Cosa?
«Un’identità. Penso che il successo de La7 non sia dovuto solo al fatto che i suoi conduttori sono bravi. Ma anche al fatto che hanno un modo di fare informazione e dibattito riconoscibile. Persino la novità di quest’anno, Famiglie d'Italia, è un game show di sapore molto nazional-popolare, ma intelligente».
E come fa?
«Durante il gioco, Insinna fa calare molto frequentemente, ma con leggerezza, spunti di riflessione sui temi importanti dell'attualità. Insomma, mette un po’ della ragione sociale di La7 anche in un game show. Un certo tipo di pubblico, quello colto, cerca l'informazione con cui è cresciuto in un posto in cui la riconosce».
Chi premi in tv?
«Tu sei matto! Non rispondo».
Perché?
«Non voglio mica trovarmi in mezzo a delle guerre che non combatto e che non conosco. Detto questo, anche a me piacciono quelli riconoscibili».
Vespa, quindi?
«Non è il tipo di informazione che mi aggancia, mettiamola così. Dopodiché Bruno Vespa ha ancora il suo pubblico. Te lo ridico: se ripeti da trent'anni uno schema, la gente alla fine ti viene a cercare, ti conosce. Insomma, fai casa, fai famiglia».
Un tele-Gattopardo?
«Forse. E un po’ mi infastidisce, pensandoci bene».
Cosa?
«Che non si innovi. Pensa a tutti i programmi di Maria De Filippi, una professionista che tiene sulle spalle tutta Canale 5. Ecco, a me fa specie che Uomini e donne faccia ancora tre milioni e passa di spettatori. Tutti i giorni».
Non è la sola trasmissione con questa ripetitività.
«No, no. C'è posta per te, adesso Temptation Island, le lunghe serialità tipo Striscia la notizia o Le Iene creano affezione. Certo. Però mi piacerebbe che le trasmissioni non fossero solo una ripetizione di sé stesse».
Qualcuno lo ha mai fatto?
«Sì».
Chi?
«Renzo Arbore, Le sue idee duravano due anni, tre anni, poi cambiava. E quella dopo funzionava. Perché? Perché era Arbore, certo. Osservo tanti tentativi di trasformare una trasmissione in un'istituzione, semplicemente ripetendola all'infinito. Mentre altre intuizioni sono state trattate come meteore. Un peccato».
Quali?
«Una pezza di Lundini, di Valerio Lundini e Giovanni Benincasa. Una bella provocazione che è durata quanto? Due stagioni? Era un’assurdità, io la guardavo stranita. Mi dicevo: ma cos'è? E però non potevi fare a meno di cercarla e di sintonizzarti. E di seguirla poi sui social, dove aveva una seconda vita meravigliosa. Perché c'era un'idea. Strampalata, dadaista, folle. Ma un'idea. Era un insieme di piccole grandi trovate, tutte in grado di “provocare” il pubblico in modo intelligente».
Quindi chi promuovi della tv?
«Tutto quello che attira attenzione. Forse è il motivo per cui scopro che facciamo simpatia il mio co-équipier e io, a In Onda. Siamo strani, anche insieme: due tipi diversi. Si capisce che ci vogliamo bene, che ci stimiamo, ma lo spettatore non sa cosa aspettarsi. E creiamo attenzione».
Sì. Certo, poi può piacere o non piacere.
«Eh, già. Abbiamo gente che non ci sopporta, altra gente ci vuole molto bene, ma a ogni modo siamo una cosa. Ecco, in tv ogni tanto c'è una cosa. Da Lundini a Belve di Fagnani».
Fagnani promossa?
«Francesca è stata bravissima a trasformare una cosa tutto sommato banale come un’intervista, cioè due persone che si parlano, in un piccolo evento. Lei “eventizza” ogni chiacchierata. E quello è un talento, c'è un'idea, c’è il tormentone…»
Cosa pensi della tv più aggressiva? Chi mette la telecamera sotto il mento per riprendere peli del naso, fuori onda e parole rubate?
«Parli di Striscia la notizia, Le Iene…. Sono format che continuano ad avere grande successo perché sono trent'anni che una parte di pubblico viene cibata con questo modo di far giornalismo. Anzi, molti spettatori si sono convinti che quello sia il vero giornalismo, perché ti fa vedere e ascoltare quello che il protagonista non direbbe mai in un rapporto tradizionale. Questo, però, in spregio a qualsiasi forma di deontologia».
Non lo hai mai fatto?
«Mai. C’è un limite a quello che può essere legittimamente mandato in onda e raccontato. Mai ledere i diritti delle persone che hai di fronte o che ti hanno dato un po’ del loro tempo, un po’ della loro confidenza. Il rapporto fiduciario con le donne e gli uomini che intervisti è insostituibile. Non trovo giusto tradirlo riprendendo e registrando sempre di nascosto, violando un patto sottoscritto».
Eppure, per anni hai lavorato a Novella 2000…
«Già. Ti racconto un segreto».
Dai.
«Adesso Ruby Rubacuori è tornata di attualità, ma io Ruby la attesi per una notte intera sul marciapiede, sotto quella che pensavo fosse casa sua, a Genova. Alle cinque del mattino Ruby mi fece avere un altro indirizzo e la raggiunsi».
Per rubarle una dichiarazione o un’immagine?
«No, per avere la possibilità di proporle un rapporto di fiducia. E non è una differenza da poco».
E questo è il sistema che avete usato quest'estate per il grande scoop della Boccia?
«È farina del sacco del tuo direttore, Telese. Mentre tutti gli inviati andavano a cercare la polvere sotto il tappeto di casa della Boccia, Luca è riuscito a conquistarne la fiducia, cosa in cui io avevo fallito, invece».
E poi?
«La Boccia si è fidata: nessuna domanda concordata, nessuna risposta rivelata in anticipo, nessun taglio, nessun montaggio, nessuna prova. Tutto verace, come lo avete visto in tv e gratis. Questo solo per puntualizzare le cose scorrette che sono state dette e scritte. E anche per ribadire che se si costruisce un rapporto non serve telecamera nascosta. Se la telecamera è palese e si gioca alla pari. L’intervistato può mentire, l’intervistatore può non credergli e ha il diritto-dovere di fargli tutte le domande. È un lavoro fatto così».
Quanto vi ha aiutato Dagospia? Oppure voi avete aiutato Dagospia?
«Credo che Dagospia abbia aiutato tutti. Anche Sangiuliano a liberarsi da una situazione che non sarebbe stato in grado di gestire a lungo».
Riprenderai la trasmissione in tv a Natale. Che progetti coltivi in questi giorni di ozio creativo?
«Sto lavorando a una serie di idee, provo a fare qualcosa di nuovo, ma non dico di più perché se poi viene male e alla fine decido di non farla sembro una mitomane».
E tra le sorprese ce n’è un’ultima, che è un nuovo fidanzato. O sbaglio?
«Ma che te frega?!!! Cosa vuoi che interessi alla gente di questo!»
Parla!
«No. Non è un giornalista, fa un altro lavoro e non se ne parla».
Un uomo misterioso, quindi?
«Per niente».
Super affascinante?
«Molto».
Come si chiama?
«Non lo dico».
Ma io lo so già…Si chiama Cristiano. È biondo?
«Ma figurati, è sardo! E adesso basta, perché sono in vacanza!»
Guarda caso in Sardegna.
«Sì, la meravigliosa Sardegna! Sai che in quest’isola non c'è una persona che mi abbia detto di riconoscermi. È stato bellissimo».