Mille e una notte con Cerami
Lo scrittore in scena a Spoltore: non strumentalizziamo l’Abruzzo ferito
«L’Abruzzo? E’ una terra ferita mortalmente, col rischio di una strumentalizzazione politica che può creare depressione, paura dell’isolamento. In molte regioni italiane povere, non protette, la ricostruzione, dopo la calamità, è stata travagliata e il conto è ancora aperto. Con l’assessorato alla cultura di Spoleto faremo, in dicembre, una grande mostra-mercato dei fumettisti nel mondo e i proventi della vendita saranno tutti per aiutare l’arte a rinascere in Abruzzo».
Vincenzo Cerami, romano, 69 anni, scrittore (suo il romanzo «Un borghese piccolo piccolo» da cui, nel 1976, fu tratto il film di Mario Monicelli con Alberto Sordi), sceneggiatore con Roberto Benigni (fra gli altri, «La vita è bella» che vinse l’Oscar per il miglior film in lingua straniera del 1998), si fa pensieroso sul futuro dell’Abruzzo.
«E’ una regione molto vicina al Lazio», dice, «e di grande spessore culturale, dall’espressione artistica molto peculiare. Penso alla tradizione della poesia popolare e dialettale, ad esempio, legata più al carattere che alla sua rappresentazione».
Nei giorni scorsi, Cerami è stato protagonista, allo Spoltore Ensemble, della lettura «a voce alta» di alcuni brani delle «Mille e una notte», in uno spettacolo teatrale basato sulla recente traduzione italiana edita da Donzelli tratta dal più antico testo arabo finora rinvenuto.
Accompagnato in scena dal musicista maltese Aidan Zammit, Cerami ha giocato il ruolo del dicitore leggendo il prologo e la prima notte dell’opera, con l’intento di spingere l’ascoltatore a cogliere la segreta intelligenza delle innumerevoli storie del capolavoro della letteratura araba. Di letteratura e vita parla in questa intervista al Centro.
Lei non è nuovo a portare in teatro il racconto a voce alta, cosa l’ha portata a scegliere le Mille e una notte?
«Questo testo spiega anche che la vita è racconto. Se non ci fosse racconto, non esisterebbe nulla. Shahrazad riesce a salvare se stessa e le donne che il re ammazzava: col racconto riesce a ritardare la tragedia. Inizialmente “Le mille e una notte” appare un testo antifemminista. In realtà, la principessa è la protagonista assoluta, è lei che salva il mondo: una contraddizione bellissima».
Qual è la modernità del testo?
«La leggenda di Shahrazad è tuttora tramandata oralmente tra le donne arabe per rammentare quanto sia importante per una donna coltivare l’intuito, l’intelligenza e la furbizia per decidere del proprio destino in una società prettamente maschilista. Ho scelto di leggere il preambolo al racconto perché non tutti sanno chi è Shahrazad. Questa edizione del testo, recuperato filologicamente dall’illustre arabista Muhsin Mahdi, getta una luce nuova sulle “Mille e una notte”, lontano da turcherie e pruderie settecentesche. Qui si evidenziano i dati comici ed esemplari del racconto. L’influenza delle “Mille e una notte” sulla letteratura europea è stata importante nel racconto popolare. Nell’oralità del racconto si rintracciano gli archetipi preistorici della storia dell’umanità: è interessante come si ritrovi la Bibbia nel racconto della mitologia mediorientale, una raccolta di sapienza popolare, come il racconto orale dell’Iliade e l’Odissea, che qualcuno ha trascritto».
Come leggerebbe in una tendopoli dell’Aquilano il racconto di Shahrazad?
«Nel mio modo di leggere non uso i modi dell’attore. Faccio sempre me stesso a voce alta, come uno che scrive in quel momento. Seguo l’eufonìa, cerco l’effetto piacevole prodotto dal suono vocale delle parole».
Cosa pensa dell’efficacia terapeutica della risata?
«Bisogna distinguere: fare umorismo sulla tragedia è volgare, oltre che immorale. La comicità, invece, è arte pura, raffinatissima, che si propone di far ridere attraverso il racconto delle disgrazie: per questo le comiche di Chaplin fanno piangere. Con “La vita è bella” abbiamo dimostrato come trattare la tragedia nello stile della comicità. Forse Plauto è uno scrittore minore perché fa commedia? Un tempo il comico era sepolto in terra sconsacrata perché sbeffeggiava il sistema e svelava le menzogne, smontava gli inganni».
E della satira in Italia che idea ha?
«La satira vive un momento difficile. Se l’autorità è paludata, è più facile prenderla in giro, se è scamiciata è gia comica di suo. La satira è una forma di arte ruffiana, un omaggio al potere piuttosto che una critica: legittima il personaggio preso di mira. Apprezzo Corrado Guzzanti, un talento unico per raffinatezza e mancanza di volgarità. Per il resto vedo solo invettiva, che non è arte e punta solo ad attaccare».
Un ricordo di Fernanda Pivano?
«Una persona dolcissima e vispa, con un’intelligenza che le permetteva di non invecchiare. Eravamo amici, i nostri incontri erano in occasioni di premi letterari e degli ambienti musicali che anch’io ho attraversato. E’ stata tra le prime intellettuali che ha subito amato la canzone d’autore, che fino a Modugno era considerata robetta».
E di Pier Paolo Pasolini, suo insegnante di lettere alle medie?
«Un rapporto bello: ha deciso il mio destino. Nel mio Dna era scritto che dovevo fare il militare. L’incontro con lui mi ha portato altrove, ho scoperto l’arte, la poesia, il cinema, l’impegno civile. Ho scoperto che non siamo egoismi ma parte di una società. E’ stato un maestro in tutto».
Vincenzo Cerami, romano, 69 anni, scrittore (suo il romanzo «Un borghese piccolo piccolo» da cui, nel 1976, fu tratto il film di Mario Monicelli con Alberto Sordi), sceneggiatore con Roberto Benigni (fra gli altri, «La vita è bella» che vinse l’Oscar per il miglior film in lingua straniera del 1998), si fa pensieroso sul futuro dell’Abruzzo.
«E’ una regione molto vicina al Lazio», dice, «e di grande spessore culturale, dall’espressione artistica molto peculiare. Penso alla tradizione della poesia popolare e dialettale, ad esempio, legata più al carattere che alla sua rappresentazione».
Nei giorni scorsi, Cerami è stato protagonista, allo Spoltore Ensemble, della lettura «a voce alta» di alcuni brani delle «Mille e una notte», in uno spettacolo teatrale basato sulla recente traduzione italiana edita da Donzelli tratta dal più antico testo arabo finora rinvenuto.
Accompagnato in scena dal musicista maltese Aidan Zammit, Cerami ha giocato il ruolo del dicitore leggendo il prologo e la prima notte dell’opera, con l’intento di spingere l’ascoltatore a cogliere la segreta intelligenza delle innumerevoli storie del capolavoro della letteratura araba. Di letteratura e vita parla in questa intervista al Centro.
Lei non è nuovo a portare in teatro il racconto a voce alta, cosa l’ha portata a scegliere le Mille e una notte?
«Questo testo spiega anche che la vita è racconto. Se non ci fosse racconto, non esisterebbe nulla. Shahrazad riesce a salvare se stessa e le donne che il re ammazzava: col racconto riesce a ritardare la tragedia. Inizialmente “Le mille e una notte” appare un testo antifemminista. In realtà, la principessa è la protagonista assoluta, è lei che salva il mondo: una contraddizione bellissima».
Qual è la modernità del testo?
«La leggenda di Shahrazad è tuttora tramandata oralmente tra le donne arabe per rammentare quanto sia importante per una donna coltivare l’intuito, l’intelligenza e la furbizia per decidere del proprio destino in una società prettamente maschilista. Ho scelto di leggere il preambolo al racconto perché non tutti sanno chi è Shahrazad. Questa edizione del testo, recuperato filologicamente dall’illustre arabista Muhsin Mahdi, getta una luce nuova sulle “Mille e una notte”, lontano da turcherie e pruderie settecentesche. Qui si evidenziano i dati comici ed esemplari del racconto. L’influenza delle “Mille e una notte” sulla letteratura europea è stata importante nel racconto popolare. Nell’oralità del racconto si rintracciano gli archetipi preistorici della storia dell’umanità: è interessante come si ritrovi la Bibbia nel racconto della mitologia mediorientale, una raccolta di sapienza popolare, come il racconto orale dell’Iliade e l’Odissea, che qualcuno ha trascritto».
Come leggerebbe in una tendopoli dell’Aquilano il racconto di Shahrazad?
«Nel mio modo di leggere non uso i modi dell’attore. Faccio sempre me stesso a voce alta, come uno che scrive in quel momento. Seguo l’eufonìa, cerco l’effetto piacevole prodotto dal suono vocale delle parole».
Cosa pensa dell’efficacia terapeutica della risata?
«Bisogna distinguere: fare umorismo sulla tragedia è volgare, oltre che immorale. La comicità, invece, è arte pura, raffinatissima, che si propone di far ridere attraverso il racconto delle disgrazie: per questo le comiche di Chaplin fanno piangere. Con “La vita è bella” abbiamo dimostrato come trattare la tragedia nello stile della comicità. Forse Plauto è uno scrittore minore perché fa commedia? Un tempo il comico era sepolto in terra sconsacrata perché sbeffeggiava il sistema e svelava le menzogne, smontava gli inganni».
E della satira in Italia che idea ha?
«La satira vive un momento difficile. Se l’autorità è paludata, è più facile prenderla in giro, se è scamiciata è gia comica di suo. La satira è una forma di arte ruffiana, un omaggio al potere piuttosto che una critica: legittima il personaggio preso di mira. Apprezzo Corrado Guzzanti, un talento unico per raffinatezza e mancanza di volgarità. Per il resto vedo solo invettiva, che non è arte e punta solo ad attaccare».
Un ricordo di Fernanda Pivano?
«Una persona dolcissima e vispa, con un’intelligenza che le permetteva di non invecchiare. Eravamo amici, i nostri incontri erano in occasioni di premi letterari e degli ambienti musicali che anch’io ho attraversato. E’ stata tra le prime intellettuali che ha subito amato la canzone d’autore, che fino a Modugno era considerata robetta».
E di Pier Paolo Pasolini, suo insegnante di lettere alle medie?
«Un rapporto bello: ha deciso il mio destino. Nel mio Dna era scritto che dovevo fare il militare. L’incontro con lui mi ha portato altrove, ho scoperto l’arte, la poesia, il cinema, l’impegno civile. Ho scoperto che non siamo egoismi ma parte di una società. E’ stato un maestro in tutto».