Pescara, coppia assolta dall’accusa di usura: è stata agli arresti per tre mesi
Due commercianti raccontano un inferno giudiziario concluso dopo otto anni: «Vogliamo che il nostro nome sia riabilitato, questa sentenza ci ridà la dignità»
PESCARA. «Mia moglie e io non siamo usurai, solo commercianti che fanno onestamente il proprio lavoro. Dopo otto anni di sofferenza psicologica, conseguente all'arresto e all'ingiusta detenzione di tre mesi, siamo stati assolti con formula piena dal tribunale di Pescara che ci ha scagionati da ogni accusa. Ora vogliamo ricominciare con una nuova attività, ma prima il nostro nome deve essere riabilitato di fronte all'opinione pubblica. Questa sentenza ci ha restituito l'onore e la dignità che nel corso di questi anni avevamo perso di fronte ad amici, conoscenti e clienti».
L'odissea di Michele Maresca, 57 anni, e Michelina Nocerino, 58 anni, entrambi di origine napoletana, residenti da 25 anni tra Pescara e Città Sant'Angelo, ebbe inizio nel luglio 2009, quando vennero arrestati nel corso di un’operazione antiusura. Gli investigatori, agli ordini della procura, sgominarono una banda di usurai e le accuse si abbatterono anche sulla coppia pescarese.
«Ci prelevarono all'alba, all'epoca abitavamo a Città sant'Angelo», racconta Maresca che in quel periodo insieme alla consorte gestiva un'attività di slot machine a Pescara, «fuori ad attenderci c'erano già televisioni e cronisti da mezza Italia. Una vergogna nazionale che pagammo forse per un caso di omonimia perché tra gli arrestati c'era anche una persona con un cognome uguale a quello di mia moglie. Ci portarono in questura e raccontammo la nostra verità. Avevamo acquistato due mansarde, pagate 100mila euro in contanti, da un tizio che ci disse di aver bisogno di denaro liquido per aiutare il padre malato che doveva affrontare un intervento chirurgico all'estero».
Quest'uomo voleva salvare il padre ammalato inseguendo la speranza di un trapianto, ma è finito nelle mani degli strozzini che in un anno gli hanno portato via tutto: case, garage, terreni, l’attività di famiglia. Beni per oltre due milioni a fronte di prestiti per 388 mila euro.
«Non abbiamo mai capito», prosegue Maresca, «per quale motivo quest'uomo ci fece finire nel calderone dei suoi problemi, dal momento che noi, dandogli quei soldi, i suoi problemi li avevamo risolti, almeno in parte. Fatto sta che il giorno dell'arresto ci portarono in questura e poi io fui trasferito nel carcere di San Donato, dove rimasi un mese prima di farne altri due ai domiciliari, mentre mia moglie si ritrovò direttamente ai domiciliari. Da quel momento cominciò il calvario della nostra famiglia, con tre figli fuori ad attenderci e intanto dai Monopoli ci era stata revocata la licenza per continuare a lavorare. Dopo tre mesi di reclusione, avevamo perso tutto».
Una volta usciti dalla detenzione, sono cominciati otto lunghi anni di processo (il caso è stato seguito dall'avvocato Vincenzo Di Girolamo) fino al verdetto, pronunciato pochi giorni fa e che ha posto fine all’incubo giudiziario e personale: assoluzione con formula piena. Ma in questi anni «abbiamo dovuto ricominciare da zero» con il lavoro, sostenuti «solo dalla nostra fede buddista e da tanta voglia di farcela». Ora, la svolta definitiva e la ripartenza con una nuova attività commerciale.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
L'odissea di Michele Maresca, 57 anni, e Michelina Nocerino, 58 anni, entrambi di origine napoletana, residenti da 25 anni tra Pescara e Città Sant'Angelo, ebbe inizio nel luglio 2009, quando vennero arrestati nel corso di un’operazione antiusura. Gli investigatori, agli ordini della procura, sgominarono una banda di usurai e le accuse si abbatterono anche sulla coppia pescarese.
«Ci prelevarono all'alba, all'epoca abitavamo a Città sant'Angelo», racconta Maresca che in quel periodo insieme alla consorte gestiva un'attività di slot machine a Pescara, «fuori ad attenderci c'erano già televisioni e cronisti da mezza Italia. Una vergogna nazionale che pagammo forse per un caso di omonimia perché tra gli arrestati c'era anche una persona con un cognome uguale a quello di mia moglie. Ci portarono in questura e raccontammo la nostra verità. Avevamo acquistato due mansarde, pagate 100mila euro in contanti, da un tizio che ci disse di aver bisogno di denaro liquido per aiutare il padre malato che doveva affrontare un intervento chirurgico all'estero».
Quest'uomo voleva salvare il padre ammalato inseguendo la speranza di un trapianto, ma è finito nelle mani degli strozzini che in un anno gli hanno portato via tutto: case, garage, terreni, l’attività di famiglia. Beni per oltre due milioni a fronte di prestiti per 388 mila euro.
«Non abbiamo mai capito», prosegue Maresca, «per quale motivo quest'uomo ci fece finire nel calderone dei suoi problemi, dal momento che noi, dandogli quei soldi, i suoi problemi li avevamo risolti, almeno in parte. Fatto sta che il giorno dell'arresto ci portarono in questura e poi io fui trasferito nel carcere di San Donato, dove rimasi un mese prima di farne altri due ai domiciliari, mentre mia moglie si ritrovò direttamente ai domiciliari. Da quel momento cominciò il calvario della nostra famiglia, con tre figli fuori ad attenderci e intanto dai Monopoli ci era stata revocata la licenza per continuare a lavorare. Dopo tre mesi di reclusione, avevamo perso tutto».
Una volta usciti dalla detenzione, sono cominciati otto lunghi anni di processo (il caso è stato seguito dall'avvocato Vincenzo Di Girolamo) fino al verdetto, pronunciato pochi giorni fa e che ha posto fine all’incubo giudiziario e personale: assoluzione con formula piena. Ma in questi anni «abbiamo dovuto ricominciare da zero» con il lavoro, sostenuti «solo dalla nostra fede buddista e da tanta voglia di farcela». Ora, la svolta definitiva e la ripartenza con una nuova attività commerciale.
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