Rigopiano da quel 18 gennaio 2017 alla Cassazione: un caso giudiziario lungo quasi otto anni

4 Dicembre 2024

Sotto le macerie dell’albergo di Farindola restano ospiti e dipendenti, un’inchiesta complessa che cambia marcia più volte

PESCARA. Una drammatica storia, lunga quasi otto anni, quella del disastro dell’hotel Rigopiano di Farindola dove il 18 gennaio del 2017, sotto le macerie dell’albergo di lusso spazzato via da una terribile e violentissima valanga, rimasero sepolte 29 persone tra ospiti e dipendenti della struttura. Un disastro imprevedibile, una calamità naturale non imputabile a nessuno secondo gli esperti, che lasciano aperte molte vie con la loro relazione. Una vicenda giudiziaria altrettanto tormentata, se vogliamo, che ha avuto una lunga gestazione e diversi cambi di direzione, oltre ad aver vissuto in pieno la pandemia con tutte le conseguenze immaginabili. Il procedimento nasce quando a capo della procura di Pescara c’era Cristina Tedeschini che prese le redini dell’inchiesta, affidata al pm Andrea Papalia, e impose, per così dire, una strada ben precisa, creando anche aperte e ufficiali polemiche sollevate in particolare dai difensori del sindaco di Farindola, Ilario Lacchetta, uno dei primi a essere indagati.

La posizione della procura andava verso una sola direzione: occuparsi delle persone fisiche e non degli enti. Né tantomeno era ipotizzabile, secondo il procuratore dell’epoca, il coinvolgimento della prefettura e del suo responsabile. Poi arriva il procuratore capo Massimiliano Serpi e l’inchiesta cambia marcia e comincia ad allargarsi e a non limitarsi alla mancata percorribilità dell’unica strada per arrivare e uscire dall’hotel della morte: tema comunque poi arrivato fino al terzo grado di giudizio. Entrano nella complessa inchiesta una folla di indagati di Regione, Provincia, Comune di Farindola e naturalmente la prefettura, addirittura con due posizioni distinte: quella del disastro e quella del famoso depistaggio.

Poi la prima scelta processuale della procura arriva a novembre 2018 con la richiesta di archiviazione di 18 personaggi, anche di primo piano, della politica: la maggior parte di loro erano politici che dal 2005 governarono la Regione. Ex presidenti, ex assessori, tutti accusati di non essere intervenuti presso i funzionari responsabili del servizio di protezione civile per sollecitare una serie di adempimenti importanti, primo fra tutti l’adozione della Carta pericolo valanghe. Una archiviazione che, al di là dell’aspetto emotivo, mediatico e quant’altro, che hanno pesato forse troppo su questa vicenda giudiziaria, ha vagliato attentamente, sotto tutti i punti di vista, le posizioni degli indagati, decretando la loro esclusione dal procedimento, con una motivazione ineccepibile dal punto di vista giudiziario.

Un lavoro molto impegnativo dell’allora gip Nicola Colantonio che si è dimostrato prezioso anche ai fini delle decisioni di primo e secondo grado. Si arriva così al rinvio a giudizio di ben 30 imputati, tra rappresentanti di Regione, Provincia, Comune di Farindola, prefettura e anche di responsabili del resort. Un percorso preliminare segnato, come si diceva, dal Covid e non solo. La prima udienza davanti al gup Gianluca Sarandrea arriva il 16 luglio del 2019. Si unificano i due procedimenti che fino ad allora avevano viaggiato in parallelo (quello sul disastro e quello sul depistaggio) e si avvia una lunga discussione con circa 250 parti tra pubblica accusa (sostenuta da Anna Benigni e Andrea Papalia), nutritissimo collegio difensivo e altrettanto numeroso parterre delle parti civili, perfettamente guidati da Sarandrea.

Nel frattempo, alla guida della procura pescarese arriva Giuseppe Bellelli (settembre 2021) che spinge per arrivare a una sentenza giusta e puntuale e imprime una accelerazione al procedimento. Tutti gli imputati scelgono la strada del rito abbreviato e la sentenza di primo grado arriva il 24 febbraio del 2023 e fa scattare una reazione scomposta davanti al gup Sarandrea che legge il dispositivo (una sentenza anche coraggiosa, oltre che tecnicamente condivisa da molti) con il quale 25 imputati vengono assolti e cinque soltanto condannati: il sindaco Lacchetta (2 anni e 8 mesi); i provinciali Paolo D’Incecco e Mauro Di Blasio (3 anni e 4 mesi ciascuno); e poi pena di sei mesi ciascuno per Bruno Di Tommaso dell’hotel, e per il tecnico Giuseppe Gatto, ma solo per un piccolo abuso edilizio.

Ma l’assoluzione che più colpisce i familiari che esplodono in una rabbia incontrollata in aula, è forse l’assoluzione dell’ex prefetto Francesco Provolo. Pesantissimi i ricorsi da parte di tutti, in primis della procura dove il procuratore Bellelli e i suoi due sostituti si erano spesi in maniera esemplare per spiegare il perché delle numerose condanne che aveva chiesto la pubblica accusa. Si arriva davanti alla Corte d’appello dell’Aquila il 6 dicembre 2023 con familiari e procura che sperano in un capovolgimento totale rispetto al primo grado.

Ma non arriva nulla di tutto questo. Arrivano le conferme delle condanne davanti al gup pescarese, con l’aggiunta del tecnico comunale Enrico Colangeli (condannato alla stessa pena di Lacchetta), ma soprattutto con la condanna dell’ex prefetto Provolo e del suo vice Leonardo Bianco, ma solo per i reati di falso e omissione di atti d’ufficio per i ritardi nella gestione del Centro soccorsi e sala operativa: 22 assoluzioni e 8 condanne. Una sentenza d’Appello che nessuno manda giù e che scatena ricorsi infuocati che arrivano in Cassazione, sul tavolo degli Ermellini: la procura generale chiede la riapertura di molte delle posizioni, in particolare dei rappresentanti degli enti preposti alla stesura della Carta valanghe e di quelli della prefettura.

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