RIGOPIANO

Rigopiano, il manutentore: “L’hotel sparito sotto la neve. Non sono ricordi ma il mio presente»

17 Gennaio 2025

Nello speciale sulla tragedia di Rigopiano, in edicola oggi col Centro, l’intervista a Fabio Salzetta. Il manutentore dell’hotel racconta la valanga e l’attesa dei soccorsi con l’altro sopravvissuto Parete: «Avevamo paura di un’altra slavina, siamo rimasti fuori sotto la neve per ore»

PESCARA. La porta che sbatte forte, un sibilo, quel rumore improvviso e lui che resta bloccato nel vano caldaie. E poi, quando riesce, trova tutto inghiottito dalla neve. Niente più hotel, dov’erano la sorella con gli altri dipendenti e tutti gli ospiti che dalla mattina, bloccati dalla neve e con le scosse di terremoto, chiedevano di tornare a casa. Spariti anche i tre colleghi con cui, come una catena umana, si stava passando i sacchi di pellet fin dentro l’albergo. Otto anni dopo quel 18 gennaio 2017, Fabio Salzetta, il manutentore dell’hotel abbattuto dalla valanga, ha ancora quest’incubo negli occhi e nella testa. «Non sono ricordi» dice, «è il mio presente».

E nel suo presente c’è ancora il senso di impotenza dell’attesa che qualcuno credesse alle richieste di aiuto sue e dell’altro sopravvissuto Giampiero Parete, che almeno poi la moglie e i due figli li ha riabbracciati. Ci sono ancora, nel suo presente, il freddo e lo choc di quella notte di buio e devastazione, con il terrore che la montagna riprendesse a ringhiargli addosso neve e detriti. E intanto lo sforzo di tenere a bada la mente: «A un certo punto abbiamo pensato che fosse stato il terremoto, e che fosse crollata anche tutta Farindola con i paesi vicini, e che alla fine non sarebbe arrivato nessuno a salvarci». Dodici ore sono passate, prima che Salzetta e Parete fossero raggiunti all’alba del giorno dopo dai primi soccorritori con gli sci.

Salzetta, domani si celebra l’ottavo anniversario, ci sarà a Rigopiano?

«Certo che ci sarò. Il tempo non cambia niente».

Un mese fa è arrivata la sentenza della Cassazione che ha riaperto il processo, come l’ha presa?

«Né bene, né male. Staremo a vedere come sarà questo secondo Appello, ma la paura è che mancano molte accuse di quelle che ci aspettavamo. Al primo impatto è stata una bella cosa, sembrava che andava tutto bene, ma non è così»,

Dopo tutto questo tempo ci ha rinunciato, alla giustizia?

«Rinunciare mai, abbiamo sperato per le vittime, figuriamoci per la giustizia. Lotteremo fino a che si può andare avanti».

La valanga di Rigopiano ha fatto il giro del mondo. Ma lei è stato il primo a trovarsi faccia a faccia con quel disastro. Com’è stato?

«Il tempo di arrampicarmi e di uscire dal vano caldaie dov’ero rimasto bloccato e ho visto quello che era successo».

Ma si è reso subito conto?

«Non era facile da credere, da capire. Sembrava solo un incubo».

Quanto tempo ha impiegato per rendersi conto?

«Ci ho messo un quarto d’ora per uscire dal vano caldaia. Mi sono arrampicato, sono salito sul tetto e da lì ho visto che era tutto bianco e sommerso».

E che ha fatto?

«Urlavo. Urlavo “non ci posso credere, che è successo?” chiamavo Gabriele e Alessandro che fino a poco prima stavano dietro di me a scaricare i pellet lì fuori. Poi ho iniziato a camminare. E mentre camminavo sulla neve proprio dove stava l’hotel pensavo “sarà stato il terremoto, l’hotel sarà crollato su se stesso”. Poi sono arrivato dove stava il tetto dell’albergo, ho guardato su, verso la montagna, e ho capito che c’era stata la valanga».

Qual era lo scenario?

«Tutte le piante della montagna non c’erano più, c’era solo un canalone bianco. Urlavo per vedere se qualcuno mi rispondeva».

E poi?

«Ci ho impiegato una ventina di minuti per trovare Parete sul lato opposto dell’hotel, sotto le piscine. Sentivo chiamare ma non vedevo nessuno mentre camminavo sopra 7-8 metri di neve compressa».

Che aveva addosso?

«Una felpa e basta. Un attimo prima del disastro ero andato dentro a togliermi il giubbino, che era tutto bagnato». (Salzetta per tutto il pomeriggio del 17 gennaio e poi dall’alba del 18 e fino a poco prima della valanga è stato fuori sul bobcat a liberare il piazzale dell’hotel dalla neve).

Quando ha raggiunto Parete, in che stato l’ha trovato?

«Era scosso anche lui, stava confuso, gridava “l’hotel non c’è più, dov’è l’hotel” e cercava l’ingresso. Ma non c’era più niente, è stato spazzato via gli dicevo».

Avete pianto?

«Non uscivano lacrime. Cercavamo solo di reagire. Abbiamo iniziato a chiamare i soccorsi, abbiamo cercato un riparo. All’inizio la mente stava impegnata. Poi il pensiero andava solo lì. Giampiero diceva “non è possibile stiamo sognando”, così fino al mattino, quando sono arrivati i soccorsi e abbiamo avuto un attimo di conforto nel vederli e pensare che forse eravamo salvi. Ma il disastro era immenso».

I soccorsi sono arrivati all’alba, per fortuna c’era la macchina di Parete per aspettare al riparo.

«Sì, ma ci abbiamo messo ore prima di metterci dentro. Cercavamo di chiamare i soccorsi, all’inizio il telefono era bagnato e non funzionava, andavamo avanti e indietro nel parcheggio per trovare il segnale. E poi avevamo paura che arrivasse un’altra valanga. Continuava a nevicare, siamo rimasti lì in piedi sotto alla neve che cadeva, ci siamo messi per un po’ anche sotto al totem dell’hotel per trovare un piccolo riparo».

Con quale stato d’animo?

«La rabbia che quando chiamavamo non ci volevano credere, non ci ascoltavano. Nessuno ci ascoltava. E intanto pensavamo, ecco adesso scende un’altra valanga. Avevamo paura. C’era il buio totale, solo la luce del telefono di Parete».

E il suo telefonino?

«L’avevo lasciato nell’hotel quando ero andato a togliermi il giubbino. Per questo, solo con il telefonino di Parete avevamo paura che si scaricasse. E infatti a mezzanotte si è scaricato».

A quel punto, che sapevate dei soccorsi?

«Niente. Non sapevamo se alla fine sarebbero arrivati o no. Eravamo fermi alle cose che ci avevano detto: ora vediamo, ora cerchiamo la turbina, ma non sapevamo niente di preciso, nessuno ci ha tranquillizzato. E così alla fine ci siamo rimessi in macchina. Come va va, ci siamo detti».

Che ora era?

«Mezzanotte circa, ma non volevano entrare per paura di restare intrappolati dentro, di non riuscire a scappare se arrivava un’altra valanga. Alla fine siamo entrati per riscaldarci».

La macchina era intatta?

«Era mezza sepolta, la valanga era arrivata proprio là: dal lato guida era sommersa dalla neve, dal lato passeggero era libera. In macchina siamo riusciti a scaldarci, ma a un certo punto ci siamo accorti che entravano i gas di scarico, perché anche la marmitta era sommersa dalla neve. Meno male che abbiamo sentito la puzza, siamo scesi e abbiamo liberato la marmitta dalla neve».

A mani nude?

«Sì, a mani nude».

E poi avete ripreso ad aspettare.

«Sì, poi però il telefono si è spento e noi siamo rimasti senza notizie certe, con il dubbio se ci avevano ascoltato o no. Non sapevamo se c’era stato il terremoto che aveva fatto venire giù la valanga e magari anche Farindola era crollata. E allora, pensavamo, se c’era un problema così in paese figuriamoci se sarebbero saliti a salvare 40 persone in un albergo».

Giù c’erano i suoi genitori, suo fratello, e nell’hotel sua sorella Linda. C’è stato un momento che ha pensato di aver perso tutto?

«Sì, in quel momento mi sentivo di aver perso tutto, non sapevo cosa fosse successo, se il terremoto riguardava tutta la regione: non sapevo niente. Poi alla radio abbiamo sentito la notizia che erano partiti i soccorsi e che stavano salendo a piedi gli sciatori. Sarà stato dopo l’una».

E a che ora sono arrivati?

«Verso le 4 e mezza 5, non era ancora giorno».

Nell’attesa, tra l’una e l’arrivo dei soccorritori, che facevate?

«Parlavamo, cercavamo di ricordare dove stavano le persone all’interno dell’albergo. Poi uscivamo, ci affacciavamo per capire se potevamo fare qualcosa, ma l’hotel era completamente sepolto, non c’era neanche un pezzo scoperto dove poter scavare e fare qualcosa a mano. Così avanti e indietro, dall’hotel alla macchina, per scaldarci».

Cosa ha provato quando ha visto i primi soccorritori?

«Sono arrivati dalle piscine davanti all’hotel, hanno visto le luci della macchina. Ed è stato un attimo di sollievo. Forse saremo salvi, ho pensato. E poi speravo che sotto la neve almeno il pian terreno dell’hotel fosse intatto, che fossero crollati solo i piani superiori e che le persone si fossero salvate».

Quando hai smesso di sperare?

«Cinque giorni dopo, quando sono sceso tra le macerie».

Lei stesso ha aiutato i soccorritori.

«Sì, conoscevo com’era fatto l’hotel e sono andato sotto per trovare dei passaggi. Ma quando sono sceso dove stava il biliardo, ho capito che l’hotel era stato totalmente macinato su se stesso. La neve era dappertutto, non c’era neanche un piccolo varco libero per arrivare al piano terra, solo calcinacci, legno e neve. Lì ho capito che non c’erano più speranze. Non c’era proprio lo spazio per permettere alle persone di sopravvivere».

Come sono stati quei cinque giorni di speranza?

«Da quando ci hanno raggiunto i soccorritori, quella mattina sono rimasto su fino a mezzogiorno-l’una. Sono risceso quando è arrivata la turbina che ha aperto la strada. Sono arrivato a casa verso le due per mettermi qualcosa di più pesante e risalire. E ho dato la notizia ai miei genitori che avevano sentito tutto, ma non sapevano di me. Gli ho detto che la situazione era grave, “torno su, vediamo se riesco a fare qualcosa per velocizzare”. C’era ancora mia sorella sotto le macerie. In quei cinque giorni riscendevo a casa per qualche ora, verso le due le tre di notte, e poi al mattino risalivo. Così fino al quinto giorno».

Fino a quando hanno trovato sua sorella Linda, tra le 29 vittime.

«Sì, il quinto giorno erano finite le speranze ormai. Erano arrivati i mezzi pesanti con gli escavatori, non c’era più niente da fare per trovarli vivi. Quando ho sentito le urla ai mezzi di fermarsi, ho capito che lì c’era mia sorella. E sono scoppiato a piangere. Lì non ce l’ho fatta più».

E dopo 8 anni?

«È ancora il mio presente, il tempo allevia ma è sempre uguale il dolore e tutto il resto».

Qual è l’immagine che non l’abbandona?

«Quando sono riuscito sul tetto e non ho trovato più niente. Mi rivedo quella cosa lì».

Le provoca degli incubi?

«Sì, me la risogno quella cosa. Perché non passa, non può mai passare, è troppo grande. È stata una cosa troppo grande Rigopiano. Non si deve dimenticare».

Domani c’è la commemorazione, tornerà su, ha detto. Come la vivrà?

«Come sempre: inizio a rivivere tutto come allora, da dieci minuti prima delle 16,49 quando è arrivata la valanga. Rivivo tutto».

E come furono quegli ultimi dieci minuti?

«L’ultimo con cui parlai prima di uscire dall’hotel fu Roberto (Del Rosso ndr), gli dissi che andavo a prendere il pellet. Passavo i sacchi ad Alessandro, poi lui a Gabriele e Gabriele, attraverso la finestra esterna del ristorante a Dame, che stava dentro al ristorante. Questo era. Poi sono rimasto chiuso dentro. E quando sono uscito, non c’era più niente».