«Che errore dare il Pescara a Scibilia»
L’ex presidente biancazzurro si racconta: il calcio di oggi non mi piace, troppi interessi
PESCARA. Era entrato nel Pescara nel 1977, il giorno dopo il trionfo di Bologna, quello della prima promozione in A nel segno di Cadè, di Caldora e dei 40mila impazziti per un'impresa mai vista, ha vissuto da presidente una delle stagioni più belle del calcio pescarese, l'86-87, quella dei Galeone-boys, di Rebogol, della squadra che avrebbe dovuto fare la C e che invece alla fine si ritrovò in serie A. Oggi Panfilo De Leonardis, 71 anni, imprenditore di Spoltore, il calcio lo segue solo in Tv, con la sua bici da corsa si fa almeno 10mila chilometri ogni anno, spesso in compagnia di Daniele Sebastiani e Stefano Giuliani, lui sì con un passato da corridore. Dieci anni da dirigente nel club biancazzurro, gli ultimi da presidente e amministratore delegato prima di un addio che ancora oggi racconta con un pizzico di rabbia e di rimpianto. «Facemmo una fesseria a cedere la società a Scibilia. Per me quella squadra che si riaffacciava in serie A con tanti giovani in rampa di lancio e tutti di nostra proprietà era un patrimonio inestimabile, provai a puntare i piedi ma non ci fu verso per far cambiare idea agli altri soci, Taraborrelli, Marinelli e Filippo De Cecco, provati da anni di dura contestazione che nemmeno la fantastica promozione aveva avuto l'effetto di mitigare. Anzi, quando spuntò l'interessamento del commendatore che oltretutto prometteva investimenti per 10 miliardi la piazza era tutta contro di noi, pure il sindaco Piscione vedeva di buon occhio la nostra uscita di scena. L'accordo fu firmato, con Scibilia che si accollava i 2 miliardi di fideiussioni e noi fummo costretti a lasciare l'ufficio del notaio da una porta di servizio…»
Però arrivò l'investimento promesso?
«Nemmeno per sogno. In attesa che si definisse l'operazione al mercato per gli acquisti ci andai io assieme a Manni, con 250 milioni riuscimmo a prendere Junior e Sliskovic, due fuoriclasse che sarebbero stati poi determinanti per quella che resta finora l'unica salvezza del Pescara in serie A. Al ritorno da Milano trovai un clima che vi raccomando: sassate contro la porta di casa, telefonate minatorie anche alle due di notte. Restai comunque per tutta la stagione come amministratore delegato. Ero in panchina a San Siro quando battemmo l'Inter, la mia lunga parentesi in biancazzurro si è chiusa con la salvezza in serie A…»
Facciamo qualche passo indietro: come entra nel Pescara?
«Fu Mario Durini, allora nello staff medico della società, a trascinarmi in questa avventura. Eravamo insieme in giunta a Spoltore, lui sindaco e io vice, cominciò a martellarmi e alla fine mi convinse. All'epoca ero il presidente del Villa S. Maria, Prima categoria, quando andai a Bologna per lo spareggio con l'Atalanta avevo già detto sì al Pescara. Il primo incarico? Addetto alla terna arbitrale, esordio per Pescara-Napoli: andai a prendere l'arbitro Bergamo al Promenade, la città era bloccata per l'arrivo del Papa, fu un'impresa arrivare allo stadio in tempo utile per la partita».
Dagli arbitri al settore giovanile, un passo avanti importante ma soprattutto ricco di soddisfazioni…
«È vero, sono stati gli anni più belli della mia esperienza come dirigente. Subentrai a Ovidio D'Eramo che nel '79 lasciò la società, iniziai un lavoro che 7 anni dopo avrebbe favorito quella fantastica promozione in serie A. Fu preziosissimo in quella fase l'apporto di Toni Giammarinaro, fu lui a portare a Pescara Bergodi, Benini e tanti altri giovani da far crescere e preparare per la Prima squadra, tra i più interessanti sicuramente Lorenzo Livello che all'esordio in B contro il Milan a San Siro vidi mettere in enorme difficoltà Collovati, ma il vero fenomeno era Paolo Pucci. Un giorno venne da me la madre e mi chiese di prenderlo perché -mi disse- non solo era forte ma era anche oriundo. Pucci era nato a Maracaibo. Un talento assoluto, su di lui avrei scommesso anche la casa. Ma come si fa a giocare contro questi così scarsi, diceva ai compagni tra un tempo e l'altro. Col pallone poteva fare di tutto, ancora mi chiedo perché non abbia sfondato. In quel periodo feci anche il primo contratto con i fratelli Pace per Poggio degli Ulivi, tutte le squadre giovanili utilizzavano quella struttura. Arrivammo a sfiorare il titolo Primavera, da lì presero il volo Gatta e Camplone, Dicara e Bergodi, Marchegiani, Marcello e Marchionne»
Parliamo degli allenatori di quegli anni: Cadè, Agroppi, Rosati, Catuzzi, Galeone…
«Ho avuto un ottimo rapporto quasi con tutti. Molto formali con Cadè visto che ero appena entrato in società e non avevo nemmeno il peso necessario per sostenerlo quando lui chiedeva, inascoltato, che gli comprassero l'attaccante Bertuzzo. Con Tom potevi dialogare e sapevi oltretutto che con lui andavi sul sicuro quando eri nei guai. Fu lui a riportarci in serie B dopo la caduta con Malatrasi e Tiddia e poi non sbagliava un acquisto. Rebonato andò a prenderlo a Verona dopo una partita di Coppa Uefa, il massimo lo fece con Tovalieri. Era un ragazzino di 18 anni, non lo conosceva nessuno. Andammo io, lui e Manni a casa di Viola, ci accordammo per il prestito con l'intesa che a fine stagione ci saremmo rivisti per definire la posizione del giocatore. Tovalieri fece 10 gol, fu la rivelazione del campionato e il presidente della Roma in pratica ce lo scippò senza tener conto degli accordi presi in estate. Tra me e Viola ci fu una polemica durissima anche sui giornali ma non servì a nulla. Difficile il dialogo con Agroppi per il suo carattere ombroso ma ottimo allenatore, Galeone fu una sorpresa per tutti ma non per Franco Manni che lo scelse. È entrato subito nel cuore della gente, lui stesso ormai è un pescarese. È stata la nostra fortuna. Catuzzi? Un tecnico preparatissimo, quando c'era lui anche la mia Primavera giocava a zona. La seconda stagione fu un disastro, per gli acquisti il suo punto di riferimento restava sempre il Bari e così mandò a monte quello che sarebbe stato un grande affare. Il ds Alberti aveva seguito per un anno intero Lombardo che giocava col Pergocrema, lo avremmo acquistato in comproprietà per 150 milioni. Io diedi l'ok, il tecnico mi disse che se volevamo potevamo prenderlo per la Primavera. Ovviamente non se ne fece niente, Lombardo andò alla Cremonese, poi avrebbe vinto lo scudetto con la Samp e con la Lazio…»
Dieci anni intensi nel pallone, e poi?
«È stata una parte importante della mia vita, probabilmente rifarei tutto ma solo a patto che potessi tornare indietro nel tempo. Il calcio di oggi non mi piace e non mi diverte, troppo dispendio di denaro, non c'è proporzione tra l'investimento e lo spettacolo che offri, procuratori, interessi, diritti televisivi contano molto più dello spogliatoio, del gioco, della maglia che indossi. Un altro mondo, mi tengo stretti i miei ricordi, e non solo quelli belli».
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