Venditti: il Tag Rugby è il futuro
«La palla ovale senza contatto fisico e con le bandierine per eludere i rischi del coronavirus»
AVEZZANO. Una stella del rugby italiano. Recentemente, è stato anche votato nel migliore 15 azzurro al 6 Nazioni. Probabilmente, diventerà un dirigente chiamato a rilanciare la palla ovale. Giovanbattista Venditti a 30 anni ha deciso di lasciare il rugby di alto livello e di tornare a giocare nella sua città, Avezzano, in serie B. Un matrimonio non consumato per colpa del coronavirus che a marzo ha determinato la sospensione dell’attività. In attesa di capire che cosa accadrà, Venditti apre il libro dei ricordi e dei sogni, tra passato e futuro.
Venditti, come ha trascorso la quarantena?
«A casa dei miei, ad Avezzano. Ero tornato con la famiglia per stare qualche giorno, il 16 febbraio scorso. La domenica sarei dovuto ripartire per Parma dove risiedo attualmente, quando è uscita la notizia che in Emilia Romagna erano state chiuse le scuole. Tanto vale, ci siamo detti, restare qualche giorno. Poi, qualche giorno è diventato qualche settimana e ancora qualche mese. È stata una benedizione enorme, perché mi ha permesso di stare con i miei e di ritrovare quell’ambiente familiare in cui sono cresciuto».
Lei dove risiede?
«Io vivo a Parma, dove ho chiuso l’attività agonistica ad alti livelli. Ma abbiamo ristrutturato casa a Piacenza, è lì che la famiglia si stabilirà, nella città di mia moglie».
Che cosa ha fatto in questi mesi?
«Un po’ mi sono occupato, con gli altri ragazzi dell’Avezzano Rugby, lavorando nel sociale, facendo la spesa al mattino, poi consegnata al pomeriggio alle famiglie fragili, quelle più esposte al virus che rimanevano in casa. A parte questo, ho letto tanto. E, soprattutto, ho aiutato i miei bambini a fare i compiti».
Come mai ha deciso di tornare ad Avezzano, anche se poi di fatto non è mai sceso in campo causa coronavirus?
«Io sono un po’ romantico. Ho lasciato Avezzano per andare a Roma, alla Capitolina, che avevo 15 anni. Ho avuto sempre in testa l’idea di tornare lì dove è tutto iniziato per chiudere il cerchio. Secondo me, era il momento giusto. Mi piaceva l’idea di tornare a casa, condividere il campo con i compagni di un tempo, volevo mettere a disposizione la mia esperienza».
Se ne riparlerà la prossima stagione?
«Possibile. Si vedrà in futuro».
Già, ma ripartirà il rugby? «Sarà una sfida enorme. Il nostro sport è classificato, insieme al pugilato, come quello più a rischio Covid-19. Occorre prendere atto che il mondo è cambiato, bisogna pensare fuori dagli schemi».
Come?
«L’idea potrebbe essere quella di sviluppare il tag rugby».
Sarebbe?
«Il rugby senza placcaggi e senza mischie, con ogni giocatore munito di bandierine ai fianchi. L’obiettivo è sempre quello di fare meta, ma per bloccare l’avversario bisogna sfilare la bandierina ai fianchi anziché ricorrere al contatto fisico».
Non è più il rugby.
«Ma è anche l’unico modo per continuare a fare il rugby, a meno che il virus venga sconfitto e non ci siano preclusione a svolgere la nostra attività sportiva. La proposta del tag rugby è anche una via di sviluppo, riferita ai giovani. Uno sport chiaro, sicuro e affidabile, già rodato all’estero e in Italia. È praticato soprattutto dai bambini».
Quale sarà il suo futuro, vero che farà il dirigente?
«Mi piacerebbe restare all’interno del mio sport. In questi anni ho studiato e accumulato competenze, finalizzato il lavoro a questo indirizzo. Mi sento portato, avverto quel tipo di vocazione. Non da tecnico, mi affascina il disegno di creare un sistema per il giocatore».
Si candiderà alle prossime elezioni federali?
«Insieme ad altre persone abbiamo messo in piedi un gruppo denominato 16° uomo. Il nostro obiettivo è quello di arrivare pronti alle elezioni: nella mia idea c’era la volontà di costruire solo delle proposte da mettere a disposizione. È chiaro, però, che il valore aggiunto di un’organizzazione la fa la persona. Le competenze fanno la differenza».
Dall’Inghilterra arriva la proposta di cacciare l’Italia dal 6 Nazioni, lei che dice?
«Mi fa ridere, perché è una voce che arriva puntuale ogni anno. Io non mi sento di giudicare, perché loro pensano di aver conquistato il mondo. Il rugby è il loro pane quotidiano. Chiaro che noi diamo modo di tirare fuori questa vecchia storia, perché non riusciamo a vincere. Non ci siamo dimostrati sempre all’altezza. L’Italia la sua crescita l’ha fatta, il problema è che il resto del mondo della palla ovale non è stato con le mani in mano ed è andato avanti».
Quando ha capito che avrebbe fatto del rugby la sua professione oltre che la sua passione?
«Io non me lo ricordo, ma mio padre mi ricorda spesso il primo giorno che andai a fare rugby, ad Avezzano. Avevo 9 anni e ed ero stato trascinato al campo da amici. Al termine del primo allenamento lui mi viene a prendere e io, entusiasta, gli chiedo: “Papà, voglio fare questo sport, dimmi che cosa devo fare per arrivare in Nazionale?”. Diciamo che avevo le idee chiare sin da piccolo. A parte gli scherzi, a 15 anni il passaggio da Avezzano a Roma mi ha messo pressione per arrivare in alto».
Il momento più bello della carriera?
«Al di là della coppa del mondo del 2015, credo che la vittoria contro il Sudafrica del 2016 sia stato il momento più alto della carriera e l’emozione più forte. La mia partita della vita, visto che ho anche segnato una delle mete più belle della carriera».
Il momento più duro?
«L’ultimo anno e mezzo. Venivo da un infortunio alla testa, grave. Che mi ha lasciato dei segni. Non ero più io quello che è rientrato a giocare. Sono un romantico di questo sport, avrei avuto bisogno di un ambiente diverso, più familiare, per ritornare a certi livelli. Ma non era più il mio ambiente, quello più congeniale. Ed eccomi qui».
Com’è cambiato il rugby in questi anni?
«Tecnicamente molto. Diciamo due-tre cicli di gioco diverso. Un’evoluzione che, ad esempio, ha toccato anche lo staff tecnico e i club. Oggi ci sono più allenatori in rose più ampie. Le stagioni sono logoranti, non a caso c’è sempre più attenzione da parte del World Rugby per il benessere e per il welfare dei giocatori».
Il suo mito rugbistico?
«Indubbiamente Jonah Lomu, il compianto neozelandese che avrebbe da poco compiuto 45 anni. Il mio sogno era la maglia nera con il numero 11 sulla schiena. Un mito».
Che cosa bisogna fare in Italia per rilanciare il rugby?
«Avere coraggio di cambiare. Il nostro sport è impantanato nelle solite facce che hanno dato tanto. Ma ora non basta. Ogni cosa ha un ciclo, lo sport cambia velocemente e occorre adeguarsi ai tempi».
L’Abruzzo?
«Sono stato e sono legato alla mia terra. Sono orgoglioso di rappresentare questa terra spesso trattata come una regione di serie B. Nel rugby il miglior compagno di squadra che ho avuto è stato un altro abruzzese, l’aquilano Andrea Masi».
Il calcio spinge per ripartire.
«Non può essere trattato come un altro sport, ha una sua specificità. Economicamente è un traino per questo Paese. Non a caso vede tanta gente coinvolta. Il calcio non è solo Cristiano Ronaldo, si commette un errore a ignorare tutto quel che ruota attorno al pallone. E’ bene che riparta il prima possibile».
Lei ha giocato e vissuto in Inghilterra, come si è trovato?
«Benissimo, gli inglesi hanno quel sottofondo di supponenza, specialmente nel rugby. Ma io mi sono sentito molto coccolato a Newcastle. Io e la mia famiglia, abbiamo ricevuto un’attenzione incredibile. Dentro e fuori dal campo».
Venditti, come ha trascorso la quarantena?
«A casa dei miei, ad Avezzano. Ero tornato con la famiglia per stare qualche giorno, il 16 febbraio scorso. La domenica sarei dovuto ripartire per Parma dove risiedo attualmente, quando è uscita la notizia che in Emilia Romagna erano state chiuse le scuole. Tanto vale, ci siamo detti, restare qualche giorno. Poi, qualche giorno è diventato qualche settimana e ancora qualche mese. È stata una benedizione enorme, perché mi ha permesso di stare con i miei e di ritrovare quell’ambiente familiare in cui sono cresciuto».
Lei dove risiede?
«Io vivo a Parma, dove ho chiuso l’attività agonistica ad alti livelli. Ma abbiamo ristrutturato casa a Piacenza, è lì che la famiglia si stabilirà, nella città di mia moglie».
Che cosa ha fatto in questi mesi?
«Un po’ mi sono occupato, con gli altri ragazzi dell’Avezzano Rugby, lavorando nel sociale, facendo la spesa al mattino, poi consegnata al pomeriggio alle famiglie fragili, quelle più esposte al virus che rimanevano in casa. A parte questo, ho letto tanto. E, soprattutto, ho aiutato i miei bambini a fare i compiti».
Come mai ha deciso di tornare ad Avezzano, anche se poi di fatto non è mai sceso in campo causa coronavirus?
«Io sono un po’ romantico. Ho lasciato Avezzano per andare a Roma, alla Capitolina, che avevo 15 anni. Ho avuto sempre in testa l’idea di tornare lì dove è tutto iniziato per chiudere il cerchio. Secondo me, era il momento giusto. Mi piaceva l’idea di tornare a casa, condividere il campo con i compagni di un tempo, volevo mettere a disposizione la mia esperienza».
Se ne riparlerà la prossima stagione?
«Possibile. Si vedrà in futuro».
Già, ma ripartirà il rugby? «Sarà una sfida enorme. Il nostro sport è classificato, insieme al pugilato, come quello più a rischio Covid-19. Occorre prendere atto che il mondo è cambiato, bisogna pensare fuori dagli schemi».
Come?
«L’idea potrebbe essere quella di sviluppare il tag rugby».
Sarebbe?
«Il rugby senza placcaggi e senza mischie, con ogni giocatore munito di bandierine ai fianchi. L’obiettivo è sempre quello di fare meta, ma per bloccare l’avversario bisogna sfilare la bandierina ai fianchi anziché ricorrere al contatto fisico».
Non è più il rugby.
«Ma è anche l’unico modo per continuare a fare il rugby, a meno che il virus venga sconfitto e non ci siano preclusione a svolgere la nostra attività sportiva. La proposta del tag rugby è anche una via di sviluppo, riferita ai giovani. Uno sport chiaro, sicuro e affidabile, già rodato all’estero e in Italia. È praticato soprattutto dai bambini».
Quale sarà il suo futuro, vero che farà il dirigente?
«Mi piacerebbe restare all’interno del mio sport. In questi anni ho studiato e accumulato competenze, finalizzato il lavoro a questo indirizzo. Mi sento portato, avverto quel tipo di vocazione. Non da tecnico, mi affascina il disegno di creare un sistema per il giocatore».
Si candiderà alle prossime elezioni federali?
«Insieme ad altre persone abbiamo messo in piedi un gruppo denominato 16° uomo. Il nostro obiettivo è quello di arrivare pronti alle elezioni: nella mia idea c’era la volontà di costruire solo delle proposte da mettere a disposizione. È chiaro, però, che il valore aggiunto di un’organizzazione la fa la persona. Le competenze fanno la differenza».
Dall’Inghilterra arriva la proposta di cacciare l’Italia dal 6 Nazioni, lei che dice?
«Mi fa ridere, perché è una voce che arriva puntuale ogni anno. Io non mi sento di giudicare, perché loro pensano di aver conquistato il mondo. Il rugby è il loro pane quotidiano. Chiaro che noi diamo modo di tirare fuori questa vecchia storia, perché non riusciamo a vincere. Non ci siamo dimostrati sempre all’altezza. L’Italia la sua crescita l’ha fatta, il problema è che il resto del mondo della palla ovale non è stato con le mani in mano ed è andato avanti».
Quando ha capito che avrebbe fatto del rugby la sua professione oltre che la sua passione?
«Io non me lo ricordo, ma mio padre mi ricorda spesso il primo giorno che andai a fare rugby, ad Avezzano. Avevo 9 anni e ed ero stato trascinato al campo da amici. Al termine del primo allenamento lui mi viene a prendere e io, entusiasta, gli chiedo: “Papà, voglio fare questo sport, dimmi che cosa devo fare per arrivare in Nazionale?”. Diciamo che avevo le idee chiare sin da piccolo. A parte gli scherzi, a 15 anni il passaggio da Avezzano a Roma mi ha messo pressione per arrivare in alto».
Il momento più bello della carriera?
«Al di là della coppa del mondo del 2015, credo che la vittoria contro il Sudafrica del 2016 sia stato il momento più alto della carriera e l’emozione più forte. La mia partita della vita, visto che ho anche segnato una delle mete più belle della carriera».
Il momento più duro?
«L’ultimo anno e mezzo. Venivo da un infortunio alla testa, grave. Che mi ha lasciato dei segni. Non ero più io quello che è rientrato a giocare. Sono un romantico di questo sport, avrei avuto bisogno di un ambiente diverso, più familiare, per ritornare a certi livelli. Ma non era più il mio ambiente, quello più congeniale. Ed eccomi qui».
Com’è cambiato il rugby in questi anni?
«Tecnicamente molto. Diciamo due-tre cicli di gioco diverso. Un’evoluzione che, ad esempio, ha toccato anche lo staff tecnico e i club. Oggi ci sono più allenatori in rose più ampie. Le stagioni sono logoranti, non a caso c’è sempre più attenzione da parte del World Rugby per il benessere e per il welfare dei giocatori».
Il suo mito rugbistico?
«Indubbiamente Jonah Lomu, il compianto neozelandese che avrebbe da poco compiuto 45 anni. Il mio sogno era la maglia nera con il numero 11 sulla schiena. Un mito».
Che cosa bisogna fare in Italia per rilanciare il rugby?
«Avere coraggio di cambiare. Il nostro sport è impantanato nelle solite facce che hanno dato tanto. Ma ora non basta. Ogni cosa ha un ciclo, lo sport cambia velocemente e occorre adeguarsi ai tempi».
L’Abruzzo?
«Sono stato e sono legato alla mia terra. Sono orgoglioso di rappresentare questa terra spesso trattata come una regione di serie B. Nel rugby il miglior compagno di squadra che ho avuto è stato un altro abruzzese, l’aquilano Andrea Masi».
Il calcio spinge per ripartire.
«Non può essere trattato come un altro sport, ha una sua specificità. Economicamente è un traino per questo Paese. Non a caso vede tanta gente coinvolta. Il calcio non è solo Cristiano Ronaldo, si commette un errore a ignorare tutto quel che ruota attorno al pallone. E’ bene che riparta il prima possibile».
Lei ha giocato e vissuto in Inghilterra, come si è trovato?
«Benissimo, gli inglesi hanno quel sottofondo di supponenza, specialmente nel rugby. Ma io mi sono sentito molto coccolato a Newcastle. Io e la mia famiglia, abbiamo ricevuto un’attenzione incredibile. Dentro e fuori dal campo».