Cameriere per pagarsi gli studi
Il dolore della mamma di De Meo: «Ridatemi il mio Antonio».
CASTEL DI LAMA. «Antonio non ce l’ho più, Antonio non ce l’ho più». Sono le parole di una mamma distrutta dal dolore, la signora Lucia, che dopo la scomparsa del figlio, improvvisa e devastante, non fa che ripetere a mò di cantilena. Seduta su una sedia, curva e spossata, appare più piccola di quello che è. La figlia maggiore Maria, anche lei molto provata, la sorregge. Gli abitanti di via Arno a Castel di Lama, dove la famiglia De Meo si era trasferita dal 1983, dopo aver appreso la notizia a turno la vanno a trovare. Con garbo cercano di darle conforto invogliandola magari a mangiare qualcosa, ma è impossibile. La signora non ha nemmeno più lacrime. Le ha terminate nella notte, dopo una drammatica telefonata che nessuno vorrebbe mai ricevere. Il papà di Antonio, Giuseppe, non dice nulla.
Ha un carattere forte, meridionale, orgoglioso e soffre in silenzio, immerso com’è nei ricordi di quel figlio piccolo dai tanti capelli ricci e gli occhiali, che ora non c’è più. E’ malato di cuore. La morte del suo ultimogenito, una notizia questa che gli cambierà per sempre la vita, gliel’hanno comunicata poco per volta cercando, nel possibile, di non farlo agitare. Antonio era un ragazzo rispettoso e concreto, di quelli che non ce ne sono quasi più. Pensava al suo futuro e lo stava già costruendo, avendo ripreso a studiare. All’università di Bologna si era iscritto soltanto due anni fa. Aveva scelto agraria per proseguire un percorso iniziato in un istituto di Ascoli Piceno dove aveva appreso di colture e amore per la natura. Nella città emiliana, rincorrendo il sogno di diventare un giorno un grande esperto, come tanti altri studenti, si manteneva lavorando in un ristorante del centro molto famoso.
Quest’estate, anche a costo di non riposare aveva deciso di lavorare, scegliendo un albergo di Villa Rosa, abruzzese, proprio per non dipendere economicamente davvero da nessuno. I suoi genitori erano stati per un certo periodo a Milano. Avevano trovato poi un posto alla Carlo Erba ad Ascoli Piceno, come operai. Dopo il pensionamento era toccato al loro figlio di mezzo, Domenico, andare a lavorare nella stessa fabbrica. Il più piccolo dei fratelli De Meo aveva scelto invece un’altra strada. Forse sognava un’esistenza diversa più gratificante con accanto la sua fidanzata, che aveva conosciuto in un paese della vallata del Tronto. Antonio credeva nella vita, aveva dei modi dolci e il sorriso sulle labbra non avrebbe mai pensato che una notte d’agosto qualcuno davanti ad un chiosco gliela rubasse con tanta e inaudita violenza. «L’hanno insultato, gli hanno gridato “quattrocchi” e poi gli hanno dato dei pugni», raccontano indignati e addolorati in paese. Chissà se è vero. Ma certo è il dolore per una morte tanto prematura.
Ha un carattere forte, meridionale, orgoglioso e soffre in silenzio, immerso com’è nei ricordi di quel figlio piccolo dai tanti capelli ricci e gli occhiali, che ora non c’è più. E’ malato di cuore. La morte del suo ultimogenito, una notizia questa che gli cambierà per sempre la vita, gliel’hanno comunicata poco per volta cercando, nel possibile, di non farlo agitare. Antonio era un ragazzo rispettoso e concreto, di quelli che non ce ne sono quasi più. Pensava al suo futuro e lo stava già costruendo, avendo ripreso a studiare. All’università di Bologna si era iscritto soltanto due anni fa. Aveva scelto agraria per proseguire un percorso iniziato in un istituto di Ascoli Piceno dove aveva appreso di colture e amore per la natura. Nella città emiliana, rincorrendo il sogno di diventare un giorno un grande esperto, come tanti altri studenti, si manteneva lavorando in un ristorante del centro molto famoso.
Quest’estate, anche a costo di non riposare aveva deciso di lavorare, scegliendo un albergo di Villa Rosa, abruzzese, proprio per non dipendere economicamente davvero da nessuno. I suoi genitori erano stati per un certo periodo a Milano. Avevano trovato poi un posto alla Carlo Erba ad Ascoli Piceno, come operai. Dopo il pensionamento era toccato al loro figlio di mezzo, Domenico, andare a lavorare nella stessa fabbrica. Il più piccolo dei fratelli De Meo aveva scelto invece un’altra strada. Forse sognava un’esistenza diversa più gratificante con accanto la sua fidanzata, che aveva conosciuto in un paese della vallata del Tronto. Antonio credeva nella vita, aveva dei modi dolci e il sorriso sulle labbra non avrebbe mai pensato che una notte d’agosto qualcuno davanti ad un chiosco gliela rubasse con tanta e inaudita violenza. «L’hanno insultato, gli hanno gridato “quattrocchi” e poi gli hanno dato dei pugni», raccontano indignati e addolorati in paese. Chissà se è vero. Ma certo è il dolore per una morte tanto prematura.