Sei vocaboli per il 2025
Abruzzo, le parole che non ti ho detto: tra sogni e speranze
di Domenico Ranieri
Il tempo viene scandito attraverso immagini e sfumature, si arrampica sulle certezze e guarda al futuro con la consueta cadenza. Secondi, minuti, ore. Scandiscono la nostra esistenza. E allora proviamo a superare le barriere del tempo sillabando sei parole che ci appartengono perché parlano di noi. La Restanza ci chiede di avere coraggio a restare, perché partire è un po’ morire, come diceva anche Pirandello. E poi la Speranza, il termine più gettonato ogni fine e principio di anno. Noi la vogliamo costruire un pezzo alla volta, non aspettiamo che ci guidi nella nostra inerzia, interagiamo con essa se vogliamo consolidarne i contorni. La Realtà spaventa di più o di meno dell’apparenza? Cosa è vero? E cosa non lo è? Non manca l’Aggregazione, intesa come bisogno di fare squadra. Unirsi per essere più forti e competitivi. La Lentezza è una boccata d’ossigeno contro la frenesia, la fretta, l’avventatezza. E infine, la tanto agognata Gioventù: un manifesto di bellezza e determinazione. I ragazzi come esempio e non come capro espiatorio delle lacune di noi adulti. Sei parole per disegnare una prospettiva, sei vocaboli da pronunciare ad alta voce. Per l’Abruzzo, per gli abruzzesi. Un piccolo abbecedario intellettuale e pratico da consumare in fretta, perché duri a lungo.
Restanza. Si può fare fortuna anche nella propria terra
di Luca Telese
Restanza è una parola nuova, che fa rima baciata con una parola bella e antica: speranza. Restanza è una parola a specchio che rimbalza come un contrario su una parola piena di vita, di storia e di dolore: partenza. Restanza è una parola assonante con una parola bellissima che in ogni tempo racconta il coraggio di non arrendersi mai: Resistenza.
Ma Restanza è, anche, una parola inventata da un professore meridionale – Vito Teti – per dare un titolo al suo libro, e raccontare una passione del passato che si declina nel futuro. Restanza è una battuta fantastica di “Un mondo a parte” di Riccardo Milani, la scena - se lo avete visto state già ridendo con me - in cui è tutto ribaltato
C’è l’Abruzzo dell’interno dove il figlio vuole restare a coltivare la terra e i suoi genitori contadini, disperati, vorrebbero che il professore arrivato da Roma – Antonio Albanese – lo convincesse a partire per la città. Allora Antonio tira fuori dallo zaino il libro (un delizioso volumetto delle Vele Einaudi) del professor Teti: “È bellissimo che vostro figlio abbia questo desiderio! È proprio quello che Teti racconta in Restanza”. E allora il padre imbufalito urla in faccia al profsssore: “Ma vattene a fangulo, tu e la restanza!” (Alla fine del film il ragazzo controcorrente resta nel suo paese di montagna, felice di cavalcare il suo trattore).
La gag di Albanese, nel film di Milani, è costruita come un bel gioco del contrario, per rompere il cliché dei padri che vogliono restare e dei figli che sognano di fuggire: ovvero la piaga del nostro tempo. Restare sui territori, restare nel “mondo a parte”, restare nelle province incantate di questa regione, restare perché si ha chiaro che nessun miraggio può farti staccare dalla tua terra, dai tuoi valori, dalla qualità della vita che nessuna metropoli ti può restituire. Restanza – oggi – sembra una idea controcorrente, ma spesso è una scelta lungimirante: il progresso è le tecnologie hanno cambiato la percezione degli spazi, hanno moltiplicato le connessioni. Si può fare carriera, fortuna, esperienza, anche senza essere sradicati dal luogo in cui siamo nati. Io sono innamorato di un verso di “Don’t give Up” di Peter Gabriel, splendida cantata a due voci scritta in duetto con Kate Bush, quella in cui la moglie, nel ritornello, rassicura il marito (che ha perso il lavoro e la propria identità) dicendogli: “Non arrenderti/, purché ci hai ancora/ non renderti perché siamo orgogliosi di te/ non arrenderti/ perché tutti noi abbiamo un luogo a cui apparteniamo”. “Don’t give up” sarebbe un bellissimo inno per chi sceglie di non andarsene, perché è un canto di speranza che gira intorno a questa idea potente: si appartiene ai luoghi, e quando si sa di appartenere ai luoghi, è molto più difficile essere sconfitti. Verranno giorni duri, è possibile, anche in questo 2025 pieno di incertezze: e anche nei momenti più duri Restanza continuerà a fare rima con appartenenza. Si può partire o restare – senza perdersi – perché si è forti, mai perché si è deboli.
Ecco perché oggi guardo con occhi particolari la foto della prima nata del 2025 in Abruzzo: si chiama Nicole, ha visto la prima luce della sua vita a Lanciano, il 1° gennaio a mezzanotte e dieci secondi. nell’immagine che pubblichiamo piange di energia vitale. Ha già capito che non sarà facile, per fortuna, ma non si arrenderà. Guardo questa foto piena di luce, nel suo contrasto, mentre con Domenico e Gian Paolo decidiamo di metterla in prima pagina: le luminose donne dello staff medico, la madre soddisfatta, e il sorriso radioso di questo padre sono un concerto pieno di sfumature importanti. Se l’Italia del 2025 sarà il paese che noi vogliamo, Nicole non sarà costretta ad un destino che non ha scelto. Non sarà costretta a diventare un cervello in fuga, e nemmeno un corpo in trappola: non sarà schiacciata come una pressa fra Partenza e Restanza, sarà quello che sceglierà di essere, aiuterà dall’amore che l’ha portata al mondo. Mi fanno molta simpatia queste donne, ma oggi vorrei abbracciare il sorriso bello e solare di questo padre e dirgli che in quella notte di parto non ha regalato solo un futuro, a sua figlia, ma una luce di speranza, a tutti noi. Sono contento di appartenere anche io, alla stessa speranza che il sorriso di questo padre ci racconta.
Realtà. Virtuale o concreta? La vera sfida oggi è definirne i confini
di Sabrina Dei Nobili
«Il tutto è falso, il falso è tutto». L’aveva già capito Giorgio Gaber, che nell’omonimo brano dell'album Io non mi sento italiano, uscito postumo nel lontano 2003, profeticamente anticipava il disorientamento dell’uomo moderno di fronte alla difficoltà di interpretare una realtà che non riconosce più: «Se tolgo ciò che è falso, non resta più niente», cantava. Rileggetelo il testo di quella canzone, sembra nata per descrivere il mondo di oggi.
Perché se c’è una parola che rende davvero percepibile il cambiamento epocale dei nostri tempi, questa è “realtà”. Parola semplice, la conoscono anche i bambini: “la realtà è ciò che esiste”, risponderebbero loro, è quella cosa in cui inciampiamo mentre camminiamo per il mondo, fidandoci dei nostri cinque sensi. La realtà la possiamo vedere, sentire, toccare, odorare, gustare.
Ma oggi? Oggi ci prende l’ansia di fronte a una realtà di cui diffidiamo. Slittano le coordinate. Realtà virtuale, percepita o concreta? Difficile orientarsi. Quest’epoca per molti versi straordinaria ci mette in punta di dita infinite informazioni, ma quella stessa tecnologia che ci rende onniscienti ci può anche ingannare, celando la verità dietro un affastellarsi di immagini farlocche e notizie bugiarde.
Possiamo ritrovarci a chiacchierare con un chatbot, pensando che sia un tecnico gentile che ci aiuta a sistemare il decoder. Postiamo commenti sotto profili social falsi, che votano pure il vincitore del festival di Sanremo. E leggiamo articoli falsi vomitati a raffica da software che inventano modi per manipolare l’elettorato. Papa Francesco in foto indossa un piumino bianco da trapper, Meloni bacia Schlein e Putin è arrestato e in manette. Navighiamo in un terreno minato dove la verità è solo un’opinione fra tante.
Tornare indietro non si può. L’intelligenza artificiale è uno strumento potente e niente affatto neutrale: riflette pregiudizi, valori e interessi di chi la impiega. Riflette, in un certo senso, l’etica della nostra società, con le contraddizioni, le ambizioni, le paure. Le sue opportunità sono straordinarie, ma vanno governate a livello globale. La sfida più grande non è capire come usarla, l’ai, ma decidere chi vogliamo essere nel suo riflesso, definendo i confini del nuovo orizzonte.
Oggi la realtà non è immutabile: è un mosaico in continuo cambiamento. Possiamo lasciarci sopraffare dalla velocità del progresso, oppure possiamo rallentare e riflettere. Una scelta che, come ogni realtà, è profondamente, ineluttabilmente, umana.
di Rossano Orlando
A come aggregazione. Quella sorta di associazione e incontro, cioè, cercato da 5.236 residenti nella provincia di Isernia che chiedono, democraticamente, l’unione all’Abruzzo a distanza di 54 anni dalla nascita della provincia molisana per distacco da quella di Campobasso e a 61 dalla creazione della Regione Molise per separazione dall’Abruzzo. Ma aggregazione fa anche rima con autodeterminazione, l’atto cioè con cui l’uomo si determina secondo la propria legge, espressione della sua libertà positiva e quindi della responsabilità e imputabilità di ogni suo volere e azione. E “A”, neanche a farlo apposta, è anche la prima lettera della nostra regione. Ecco, se la mettiamo sul piano dell’esistenza, la vita non ci vuole come monadi, ma parti comunicanti di un puzzle che, se incastrate bene, portano a rimettere in sesto gli elementi sparpagliati di un qualsiasi oggetto. Anche se per completare il gioco occorre tanta pazienza. Del resto proprio la figura del puzzle rappresenta una sorta di abbraccio collettivo che manifesta condivisione, solidarietà e vicinanza (non soltanto territoriale) tra le svariate tessere. Ecco allora lo slogan “Ricuciamo il nostro futuro”, coniato nella terra al di là dei fiumi Sangro e Trigno per invitare i residenti ad aderire al referendum, in cui due mani congiungono, con una serie di punti messi con tanto di ago e filo, il territorio isernino a quello abruzzese. Non una nuova Linea Gustav, come è già accaduto nel passato di queste terre, ma una sorta di cerniera che saldi quello che non era mai stato un confine se non nella mente dell’uomo solitario. Ma perché questa richiesta di aggregazione? «Perché, spiegano i promotori, «una Regione così piccola come il Molise, non si regge a vita con una base fiscale risibile e con lo spettro del default dietro l’angolo». Ma non finisce qui: il referendum è un primo passo verso la creazione di una macroregione che porti a riunire il Molise all’Abruzzo, come tanti anni fa. Per ora le prime tessere di un ritorno al passato ma che guarda al futuro, sono state incastrate. Poi, chi vivrà vedrà.
Giovinezza. La sfida di tutti, ma è bella e fragile come una foglia
di Erika Gambino
Giovinezza: bella, amata e rincorsa a tutti costi. Essere giovani talvolta può essere solo una sfida con lo specchio, a volte un'ossessione. E poi c'è l'altra gioventù, quella vera e che lotta con un mondo feroce che ti mangia di giorno in giorno.
Se da una parte ti senti invincibile perché pensi che nulla ti possa far male, essere giovani vuol dire anche avere paura. Davanti a te c’è un mondo che non conosci, un futuro che ti devi costruire con le tue mani. Insomma, un’incognita. L’incertezza di non sapere cosa t’aspetta e quindi di sbagliare.
E qui, subentra l’ansia da prestazione tipica di noi giovani. Perché il mondo lì fuori si aspetta che tu sia sempre a mille. Energetico e brillante. E invece, forse c’è voluta una pandemia mondiale per farlo capire, siamo anche fragili come le foglie. Ci basta un soffio per cadere, per piangere.
Qualche settimana fa il cuore di noi abruzzesi si è stretto attorno alla tragedia di una ragazzina. Si chiamava Sofia, aveva 15 anni ed è morta investita sulle strisce pedonali davanti alla sua scuola, a Pescara. Sofia era bella, sportiva e studiosa. Sofia era giovane e voleva vivere. Dopo la sua morte, mentre gli adulti cercavano un colpevole e litigavano sulle responsabilità, l’ondata più forte d’amore l’hanno mandata i giovani.
E allora vi riprendo uno stralcio di una lettera che ho conservato nel cassetto della redazione. L’autrice è Camilla Agati, frequenta il quarto al liceo Maior di Pescara. Lei, come tanti altri, non conosceva Sofia. Mentre gli adulti si azzuffavano dietro una tastiera tra zone 30 e limiti di velocità, lei ha preso carta e penna. «Dicono a noi giovani che siamo irresponsabili, non accettiamo le conseguenze delle nostre azioni, ma è difficile essere consapevoli in un ambiente in cui la risposta è sempre “è così e basta”. Grazie Sofia per averci fatto aprire gli occhi, grazie di essere un esempio per non mollare mai, per fare della nostra vita un libro pieno di emozioni, un quadro ricco di colori, un capolavoro».
Siamo giovani, immaturi e sbagliamo facilmente. Ma delle volte siamo più grandi degli adulti.
Lentezza. Attenti al nuovo codice stradale. E se rallentassimo le nostre vite?
di Gian Paolo Coppola
Birra di Natale o multone? Prosecchino o patente a coriandoli? Il dilemma shakesperiano in chiave alcolica ci obbliga a una scelta, frustrante - antifesta e proacqua quanto vi pare - ma obbligata: dribblare le nuove regole non è il caso, a meno di non voler sfidare la ruota della fortuna (perché fermare proprio me, con tante auto in giro?). Il codice della strada appena entrato in vigore è severo e trasversale: punisce gli incalliti del vino come gli astemi “tranne a San Silvestro”, sconfessa il partito del “bicchiere solitario” (uno e non più di uno) e quello del “reggo benissimo ogni tipo di alcol”. Epoca finita, per tutti: si può essere sottoposti a controllo anche se non si desta il sospetto di guidare sotto l'effetto di bevande o di stupefacenti. Il conto da pagare manda in soffitta la bilancia, tanto pesanti sono le sanzioni. Sfidare i grammi a litro per restare sotto la soglia di 0,8 equivale a una roulette russa: o il bicchiere (pieno, please) o il volante. Vale il rischio? E allora, passata la sbornia (di rabbia, sia chiaro), converrà adeguarsi. Partendo da un reset di se stessi, magari, e da una prospettiva rielaborata di quel tempo che bruciamo in auto correndo (Alt, Stop: anche in questo caso, maxi sanzioni e documento di guida che vola via più prima di prima), braccandolo neanche fosse una bella donna (o un bell'uomo), lamentandoci che sia sempre poco anche se è lo stesso che maneggiavano i nostri nonni. E se ne approfittassimo tutti per ricalibrare quel ritmo di vita da cento all'ora che scandisce le nostre giornate, non solo in macchina?
Un andamento lento, alla Tullio De Piscopo, per noi Iloti del tempo, magari senza farci schiavizzare anche da quel telefonino portatore insano - esso pure - di patenti sospese fino a due mesi, di punti dissolti (fino a 10 in caso in cui l'irresistibile attrazione ci facesse cascare due volte in tentazione), ma soprattutto di tragedie. Ideona da abbrivio d'anno dei buoni propositi: e se provassimo a rendere tutta la nostra esistenza un viaggio a 30 all'ora? Bologna l'ha declinata a bordo dell'auto. Se noi provassimo a spalmarla sulle 24 ore, potremmo sorpassare a destra - sì, in questo caso si può - anche la città Dotta, Rossa e Grassa. Utopia? Chissà. Eppure potremmo godercelo di più, ’sto tempo tiranno. Gustarlo come si deve, assaporarlo, sorseggiarlo. Come una birra di Natale. Ops…
di Giustino Parisse
“Speranza” è la parola più gettonata e “abusata” quando si passa dall’anno “vecchio” a quello “nuovo”. Tutti nutriamo la speranza in un futuro migliore salvo restare puntualmente delusi al successivo giro di boa. Speranza è quindi un termine vuoto di significato? Un modo di autoconsolarci con l'illusione di vedere una luce in fondo al tunnel delle nostre vite? No. Chi studia l’origine delle parole ci dice che speranza significa “tendere verso una meta”. Ci sono modi diversi di declinarla: quello religioso e quello laico. Di recente Papa Francesco ha scritto: “La speranza è un dono e un compito per ogni cristiano. È un dono perché è Dio che ce la offre. Sperare, infatti, non è un mero atto di ottimismo ma è attendere qualcosa che ci è già stato donato: la salvezza nell’amore eterno e infinito di Dio”. C’è poi la dimensione laica emersa chiaramente dal discorso di fine anno del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: “La speranza siamo noi, il nostro impegno, la nostra libertà, le nostre scelte perché la speranza non può tradursi soltanto in attesa inoperosa”. Nella parola speranza, però, c’è anche una, forse ancora più marcata, dimensione personale. Bisogna tornare all'etimologia: tendere verso una meta. Quando si è perso tutto (affetti familiari e beni materiali) la tentazione è quella di mollare. Benedetto Croce, che vide morire quasi tutta la famiglia nel terremoto di Casamicciola del 1883, ha scritto: “Quegli anni furono i miei più dolorosi e cupi. I soli nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente bramato di non svegliarmi al mattino e mi siano sorti persino pensieri di suicidio”.
L'esperienza personale mi ha fatto capire che la speranza è un concetto concreto. Significa alzarsi al mattino e cercare di ricostruire un pezzo piccolo o grande della propria vita e della propria comunità, quella comunità in cui la speranza individuale si alimenta con sogni e obiettivi da raggiungere. Il giorno in cui non si hanno più sogni e obiettivi significa che la morte (anche se si è ancora vivi) ha sconfitto la speranza. E questo nessuno di noi può permetterlo.
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