Ainis, una cura per l’Italia
La ricetta del saggista nel nuovo libro: meritocrazia e democrazia diretta.
«La scarsa volontà di riconoscere i talenti, di stimolarli, di compensarne adeguatamente l’operato è la palla al piede della nostra società».
Si chiama deficit di meritocrazia il male di cui soffre l’Italia di oggi. E’ la diagnosi che Michele Ainis affida alle pagine del suo nuovo saggio, «La cura» (Chiare Lettere, 183 pagine, 14 euro). Messinese, editorialista della Stampa, Ainis, che insegna diritto pubblico all’università di Roma Tre (dopo averlo fatto per dieci anni all’ateneo di Teramo), prosegue, con questo libro, il suo decennale, volterriano racconto del male di vivere nel Belpaese. Ne parla in questa intervista al Centro.
Lei detta una cura per l’Italia malata: qual è la malattia più perniciosa del Paese?
«L’ingiustizia. Che poi si declina in tanti modi. Penso che ci sia in giro una percezione abbastanza diffusa di vivere in una società ingiusta, che non sa ricompensare i meriti, che è feroce contro i deboli e che chiude un occhio sugli abusi dei potenti. Tutto questo, a lungo andare - perché questa situazione dura da tempo ed è peggiorata con il tempo - ci ha fatto diventare tutti un po’ più cinici».
In che modo?
«Nel senso che uno dice: visto che il sistema funziona così, allora cerco di montare su uno sgabello anche se, per farlo, devo pestare i piedi al mio vicino. Accade anche a delle belle intelligenze con un passato rivoluzionario e con un presente di acquiescenza».
Nel libro lei sostiene che solo la meritocrazia è capace di conciliare eguaglianza e libertà: come?
«Sì, perché in una società tendenzialmente meritocratica, la libertà diventa la libertà di decidere il proprio destino. Ma ciascuno è artefice del proprio destino se nuota in un mare sociale che gli consente di dedicarsi a questo. E l’eguaglianza viene favorita da una società tendenzialmente meritocratica perché essa rimuove gli ostacoli che falsano la gara cercando di realizzare un’eguaglianza ai nastri di partenza. Per cui anche il figlio dell’operaio, in questa gara, può arrivare primo e precedere il figlio del dirigente. In questo senso, quindi, tendere alla meritocrazia significa dare una chance di libertà e di eguaglianza».
La cultura cattocomunista - lei sostiene nel libro - ha penalizzato la meritocrazia in Italia: perché e come?
«Lo ha fatto con questa sua difficoltà a mettersi in gioco come singoli e come società; e coprendosi con ideologie molto rassicuranti che rinviano al paradiso promesso da Gesù oppure al comunismo promesso da Lenin. In entrambi i casi rinviando la partita al dopo, mentre noi abbiamo solo questa di vita e ce la dobbiamo giocare qui e adesso. Quella cultura ha responsabilità anche per un altro verso, per la sua diffidenza verso la competizione. Certo, la competizione bisogna vedere come viene sviluppata, ma, senza la competizione, chi ha talento e cuore viene privato anche di ogni possibilità di riscatto sociale rispetto a un destino segnato per lui dalla nascita, dal censo o dalla parrocchia di appartenenza».
La mobilità sociale - lei dice - è vitale per una vera democrazia: perché?
«Perché la mobilità sociale significa anche possibilità per i migliori di raggiungere postazioni di responsabilità sociale. Se questo non avviene, significa che i posti di comando sono raggiunti solo dai mediocri. E se siamo governati dai mediocri non avremo mai un buon governo e una polis che funziona. Se una polis non funziona - in termini di servizi publici e di giustizia - ciascuno di noi è portato a dare tutte le colpe al sistema che governa la polis e, quindi, alla democrazia, anche in nome di un malinteso senso della giustizia. Se la democrazia produce questo risultato, alla fine, ci ritroviamo a voler essere guidati da un uomo con la mascella forte (ride)».
In un Paese come l’Italia dove il Parlamento è cooptato da chi, nei fatti, blocca meritocrazia e mobilità sociale, che speranza c’è di attuare una cura ai mali del Paese come quella da lei proposta?
«Questo è un punto critico. Viviamo in una democrazia parlamentare un po’ troppo sbilanciata - a mio parere - sulle ragioni della delega, a dispetto di quelle della partecipazione diretta. Questo ha significato un dominio dei partiti e pochissimi strumenti di decisione diretta per i cittadini. Quindi, visto che è difficile che partiti e oligarchie possano coltivare l’idea del suicidio, dovremmo usare quei pochi strumenti di democrazia diretta che abbiamo a disposizione».
Quali?
«Per esempio l’iniziativa legislativa popolare che oggi - è vero - è un’arma scarica perché, una volta che si sono raccolte 50 mila firme, la proposta di legge rimane a marcire nei cassetti di Montecitorio. Ma se ci fosse una mobilitazione su una proposta di democrazia radicale, si creerebbe una forza politica di cui sarebbe difficile non tenere conto. Di questi strumenti, inoltre, ce ne sono molti di più a livello locale».
Quale dei “comandamenti” del decalogo che chiude il suo libro è quello più importante?
«E’ quello che vorrebbe introdurre il principio di decisione diretta da parte dei cittadini. Questo principio si può attuare in tanti modi e riguarda anche gli ultimi due “comandamenti” del decalogo: impedire il governo degli inetti e promuovere il controllo democratico».
Professor Ainis, ma non si è sentito un po’ come il Dio del Sinai a dettare questo decalogo?
«Beh, come, dice Woody Allen, bisogna pur darsi dei modelli ride)».
Si chiama deficit di meritocrazia il male di cui soffre l’Italia di oggi. E’ la diagnosi che Michele Ainis affida alle pagine del suo nuovo saggio, «La cura» (Chiare Lettere, 183 pagine, 14 euro). Messinese, editorialista della Stampa, Ainis, che insegna diritto pubblico all’università di Roma Tre (dopo averlo fatto per dieci anni all’ateneo di Teramo), prosegue, con questo libro, il suo decennale, volterriano racconto del male di vivere nel Belpaese. Ne parla in questa intervista al Centro.
Lei detta una cura per l’Italia malata: qual è la malattia più perniciosa del Paese?
«L’ingiustizia. Che poi si declina in tanti modi. Penso che ci sia in giro una percezione abbastanza diffusa di vivere in una società ingiusta, che non sa ricompensare i meriti, che è feroce contro i deboli e che chiude un occhio sugli abusi dei potenti. Tutto questo, a lungo andare - perché questa situazione dura da tempo ed è peggiorata con il tempo - ci ha fatto diventare tutti un po’ più cinici».
In che modo?
«Nel senso che uno dice: visto che il sistema funziona così, allora cerco di montare su uno sgabello anche se, per farlo, devo pestare i piedi al mio vicino. Accade anche a delle belle intelligenze con un passato rivoluzionario e con un presente di acquiescenza».
Nel libro lei sostiene che solo la meritocrazia è capace di conciliare eguaglianza e libertà: come?
«Sì, perché in una società tendenzialmente meritocratica, la libertà diventa la libertà di decidere il proprio destino. Ma ciascuno è artefice del proprio destino se nuota in un mare sociale che gli consente di dedicarsi a questo. E l’eguaglianza viene favorita da una società tendenzialmente meritocratica perché essa rimuove gli ostacoli che falsano la gara cercando di realizzare un’eguaglianza ai nastri di partenza. Per cui anche il figlio dell’operaio, in questa gara, può arrivare primo e precedere il figlio del dirigente. In questo senso, quindi, tendere alla meritocrazia significa dare una chance di libertà e di eguaglianza».
La cultura cattocomunista - lei sostiene nel libro - ha penalizzato la meritocrazia in Italia: perché e come?
«Lo ha fatto con questa sua difficoltà a mettersi in gioco come singoli e come società; e coprendosi con ideologie molto rassicuranti che rinviano al paradiso promesso da Gesù oppure al comunismo promesso da Lenin. In entrambi i casi rinviando la partita al dopo, mentre noi abbiamo solo questa di vita e ce la dobbiamo giocare qui e adesso. Quella cultura ha responsabilità anche per un altro verso, per la sua diffidenza verso la competizione. Certo, la competizione bisogna vedere come viene sviluppata, ma, senza la competizione, chi ha talento e cuore viene privato anche di ogni possibilità di riscatto sociale rispetto a un destino segnato per lui dalla nascita, dal censo o dalla parrocchia di appartenenza».
La mobilità sociale - lei dice - è vitale per una vera democrazia: perché?
«Perché la mobilità sociale significa anche possibilità per i migliori di raggiungere postazioni di responsabilità sociale. Se questo non avviene, significa che i posti di comando sono raggiunti solo dai mediocri. E se siamo governati dai mediocri non avremo mai un buon governo e una polis che funziona. Se una polis non funziona - in termini di servizi publici e di giustizia - ciascuno di noi è portato a dare tutte le colpe al sistema che governa la polis e, quindi, alla democrazia, anche in nome di un malinteso senso della giustizia. Se la democrazia produce questo risultato, alla fine, ci ritroviamo a voler essere guidati da un uomo con la mascella forte (ride)».
In un Paese come l’Italia dove il Parlamento è cooptato da chi, nei fatti, blocca meritocrazia e mobilità sociale, che speranza c’è di attuare una cura ai mali del Paese come quella da lei proposta?
«Questo è un punto critico. Viviamo in una democrazia parlamentare un po’ troppo sbilanciata - a mio parere - sulle ragioni della delega, a dispetto di quelle della partecipazione diretta. Questo ha significato un dominio dei partiti e pochissimi strumenti di decisione diretta per i cittadini. Quindi, visto che è difficile che partiti e oligarchie possano coltivare l’idea del suicidio, dovremmo usare quei pochi strumenti di democrazia diretta che abbiamo a disposizione».
Quali?
«Per esempio l’iniziativa legislativa popolare che oggi - è vero - è un’arma scarica perché, una volta che si sono raccolte 50 mila firme, la proposta di legge rimane a marcire nei cassetti di Montecitorio. Ma se ci fosse una mobilitazione su una proposta di democrazia radicale, si creerebbe una forza politica di cui sarebbe difficile non tenere conto. Di questi strumenti, inoltre, ce ne sono molti di più a livello locale».
Quale dei “comandamenti” del decalogo che chiude il suo libro è quello più importante?
«E’ quello che vorrebbe introdurre il principio di decisione diretta da parte dei cittadini. Questo principio si può attuare in tanti modi e riguarda anche gli ultimi due “comandamenti” del decalogo: impedire il governo degli inetti e promuovere il controllo democratico».
Professor Ainis, ma non si è sentito un po’ come il Dio del Sinai a dettare questo decalogo?
«Beh, come, dice Woody Allen, bisogna pur darsi dei modelli ride)».