Filippo Antonio De Cecco (illustrazione di Manolo Fucecchi)

ESCLUSIVA IL CENTRO

De Cecco: io, il re della pasta

Intervista a Fillippo Antonio: "Siamo la Ferrari dell'alimentare, ora puntiamo a raggiungere il miliardo di fatturato Solo grano italiano? Sciocchezze. La penna liscia è semplice come i Beatles"

Luca Telese

Dottor De Cecco, cosa sta facendo con quel grano?

(Sorriso). Secondo lei? Me lo dica.

Sembra che lo stia accarezzando e stringendo. Come si fa con le amanti.

Lei mi provoca: ma il suo paragone erotico non è del tutto sbagliato.

Cioè?

Questa “palpazione” è a metà fra l’esame organolettico e un vero atto d’amore.

Ah ah ah.

Non scherzo. Toccando i chicchi con polpastrelli ne avverto subito la consistenza, sento al tatto la densità delle fibre, mi faccio – ovviamente – anche un’idea delle dimensioni.

E quando stringe le dita intorno alla presa?

Soppesando un pugno di grano nel palmo, e stringendolo, capisco il peso specifico, che per noi è molto importante. Poi tornando ad accarezzare, con più lentezza. avverto se il grano è liscio, e di conseguenza riesco anche capire se, e quanto, è umido o secco.

Mi scusi: ma tutte queste cose le capisce solo usando le mani?

No, uso anche la vista, ovviamente. Questo è un chicco americano: il colore dice molto del grano, di come è cresciuto, del campo in cui è cresciuto. Di come è stato concimato.

Addirittura.

Pensi alla selezione che facciamo. Lei traversando il nostro Molino – nei nostri impianti di Fara – è passato davanti a quella macchina in cui sentiva un suono ritmato - tic-tic-tic… - ha fatto attenzione a quel rumore ritmico?

Certo.

In quella fase, il grano che abbiamo scelto viene scannerizzato, chicco per chicco, con dei sensori ottici, e privato di tutti gli elementi guasti, o ammalorati, che vengono sparati fuori in modo selettivo con dei piccoli getti di aria compressa. Altra lezione...

Quale?

(Ride). Tutti esaltano il valore della presunta “naturalità” dei processi, che non esiste più, da quando è stata inventata la ruota della macina.

DE CECCO: LA NOSTRA STORIA E' NATA DA UN BREVETTO GENIALE

Fantastico.

Spesso questi presunti “naturisti” non capiscono che la nostra procedura industriale porta ad un prodotto di un livello qualitativo impressionante. Irraggiungibile in nessun altro modo.

Nessun chicco impuro si salva dal filtro?

Non sfugge nulla! La nostra semola nasce così, è perfetta. E solo da una semola perfetta si può trarre una pasta perfetta.

Filippo Antonio De Cecco nel suo ufficio in occasione del 130esimo annivesario dell'azienda

Lei non crede ai prodotti di “Solo grano italiano”?

Per nulla! È una stupidaggine, per tanti motivi.

Sento che ha un giudizio sfumato…

Le dico le ragioni più importanti?

Sono tutt’orecchi.

La prima: se la miscela fosse solo italiana, non basterebbe l’intera produzione nazionale per coprire l’enorme fabbisogno di pasta di questo Paese!

E poi?

Quest’anno, per colpa del clima, il raccolto italiano è stato disastroso.

E cosa può dedurre da questi chicchi italiani sul climate change?

Su molti dei nostri campi piove poco, o troppo, c’è troppo sole o ce n’è troppo poco: il grano, per chi lo sa capire, è il primo grande termometro di questo nuovo squilibrio ecologico. Io non ho bisogno del Tg per capire che abbiamo avuto e avremo siccità e alluvioni.

E davvero questo eco-terremoto è collegato anche alle vostre miscele?

Certo! Il grano è come una spia accesa sul cruscotto del clima. Io devo avere sempre una qualità perfetta, e quindi ricorro ai migliori grani del mondo, per mantenere alto e costante il livello della nostra semola. Ogni giorno. È per questo che mi faccio mettere tutti i campioni qui, su questo tavolo del mio ufficio. E poi… li palpo. Vista e tatto.

E l’olfatto dove lo lascia? Mi dica: che odore ha sentito quando traversava l’essiccatoio? Me lo descriva.

Un odore forte e molto buono, come di pasticceria.

Provi a raccontarlo meglio.

Un odore che ti fa venire fame.

Ricorda quello dei biscotti appena sfornati…

Esatto! Anche se tecnicamente non ci sono zuccheri, chi lo sente pensa qualcosa di dolce e tostato. La avverto: questo odore non lo trova in tutti gli impianti d’Italia. Quell’odore è la sintesi di tutto, quell’odore è... De Cecco. Per me questa è l’ultima controprova, la vera cartina di tornasole: il naso.

Cioè?

Quando sono davanti all’essiccatoio devo sentire sempre il profumo di cui parlavo, deve ubriacarmi il naso. Solo allora ho la certezza che abbiamo comprato e selezionato bene.

Ma davvero lei, nel terzo millennio, sceglie le partite di migliaia di tonnellate con vista, olfatto e tatto?

(Ride). No, uso anche il gusto.

Ma se avete un laboratorio di esame che pare la Nasa!

Ovvio. È prezioso. E individua tutto quello che non si vede: diserbanti, pesticidi e veleni. Ma nel 99% dei casi, non esagero, le analisi chimiche finali confermano quello che io scopro con questi sistemi antichissimi.

Non ha paura di sembrare immodesto, vedo.

Guardi, io da imprenditore sono nemico della falsa modestia, credo ai fatti.

Quali?

Lei sta parlando con una persona che compra grano da mezzo secolo. Se mi fossi sbagliato, saremmo già in rovina da anni. Questo è un mestiere difficile che – come le spiegherò – si basa su materie prime e ingegno.

Sarei curioso di sapere cosa ne pensano i suoi concorrenti.

(Ride). Non c’è bisogno di chiederglielo, perché lei è fortunato.

Addirittura?

Telese! Non esiste una persona al mondo che su questo tema ne sappia quanto me. E con me ci sta già parlando.

Quando Filippo De Cecco stringe un chicco di grano tra pollice e indice pare un tagliatore di diamanti. Quando lo accarezza, un maniaco. Quando lo assaggia, un arci-goloso. In questa intervista, nel suo ufficio di Fara San Martino (il luogo da cui è partito tutto) parla dei suoi affetti, della sua idea della fabbrica, dei suoi rapporti più importanti, a partire da quello con la moglie e il padre. È più ironico di come me lo ero immaginato, a tratti persino “cattivista” (lo scoprirete nella battuta finale). Quando si diverte a motteggiare l’intervistatore ricorre al dialetto, preferisce essere anti-retorico che accattivante. Quando ricorre a queste battute ride di gusto, e gli brillano gli incisivi. Ha compiuto 80 anni ma progetta investimenti per il prossimo mezzo secolo. Mi dice di non aver mai parlato prima della sua biografia e dei suoi fatti personali. Si gode il mio stupore – di nuovo incisivi che brillano - battuta: «Quando decidi di parlare di te devi avere qualcosa da raccontare».

Bene, dove comincia, allora, la storia della De Cecco?

(Sospirone). Lo abbiamo scritto su ogni pacco di pasta; nel secolo scorso. Nel 1831, con un mugnaio – il mio bisnonno – che si chiama Nicola Antonio De Cecco. Suo figlio Filippo estende l’attività e ovviamente diventa pastaio e poi inventore. Con il salto di generazione ci sono anche un salto evolutivo e un colpo di genio. Senza quell’innovazione industriale il nostro cognome non sarebbe noto nel mondo, e io non sarei qui a parlarle seduto su questa bella poltrona.

Il colpo di genio di cui parla è una invenzione.

Se lei apre la Treccani ci trova il nome di mio nonno, Filippo Antonio, che io non ho mai conosciuto. Il brevetto mondiale del processo di essiccazione della pasta è firmato De Cecco perché è suo.

Un inventore.

“Filippo primo” è il genietto che cambia la storia. Ma ovviamente devo prima spiegarle cosa era la pasta a metà dell’Ottocento.

E cos’era?

Esisteva solo la pasta fresca. Essiccata al sole. E siccome un sole più bello che a Napoli è difficile trovarlo ancora oggi, la migliore pasta del mondo era quella napoletana. Senza l’invenzione di Filippo, dunque, la De Cecco non sarebbe mai potuta esistere.

Perché?

Immagini un prodotto fresco, e dunque deperibile, che partiva da Fara San Martino in carretto, percorrendo strade e chilometri di tornanti!

Un’odissea.

E pensi al sole di un paesino arroccato ai piedi della Maiella, dove spesso pioveva e nevicava, che non poteva certo competere con quello di Napoli. Per fortuna – a questo punto del racconto – arriva Fiore Tavani.

Chi arriva?

Un compaesano. Emigrato in America. Scrive a nonno Filippo che la vita degli emigranti oltreoceano è dura, anche per i problemi alimentari dovuti al cibo americano: “Mandami la nostra pasta!”. Abbiamo ancora quel carteggio.

E lui?

Si mette a pensare e inventa: non solo le camere di essiccazione progressiva. Ma un nastro meccanico che muove la pasta appesa dentro le camere. E le attraversa, come in una catena di montaggio. Ma soprattutto….

A cosa pensa?

Ad una centrale elettrica, anzi, meglio: idroelettrica per alimentare gli essiccatoi. La realizza nel 1905. É ancora lì, in funzione. Perfettamente efficiente.

Non ci credo.

Deve. Ne ha costruite tre. A questo punto aggiunga un altro fattore decisivo: lui disegna un baule sigillato in legno, con angoli rinforzati in bronzo. Deve viaggiare nei famosi carretti 17 chilometri fino a Palena, poi dalla stazione di Palena in treno fino a Napoli, per arrivare ai piroscafi. E, di lì, in nave a Philadelphia….

E poi?

Il commercio ingrana, dal mediterraneo all’Atlantico. Arriviamo in America un secolo prima di tutti gli altri grazie a questa coccia benedetta di Filippo. Ora: lei ha abbastanza immaginazione per capire cosa significava portare un prodotto alimentare da Palena a Philadelfia Philadelphia nel 1866? Nel 1905? Nel 1930?

Me lo immagino.

Era fantascienza. Ma ci riuscirono. Ora guardi su quel muro! Dietro di lei, nella cornice d’oro. Il certificato. Legga quella riga: The World Columbian Commission….”.

È la commissione americana che certifica a suo nonno un brevetto di esportazione per Macaroni e Vermicelli.

Siamo arrivati dall’altra parte del mondo, perché ci siamo inventati un sistema rivoluzionario che ancora oggi è invariato. E non siamo mai più tornati indietro. Ma a questo punto entra in campo la nostra arma invisibile.

Quale?

L’acqua di fonte di Fara. Ma in più c’è la tecnologia. Ci inventiamo la “lava-grano”, per togliere le fibre, gli scarti di raccolta, le impurità: immagini una lavatrice con dentro il grano che gira al posto dei vestiti. Solo quel laser l’ha sostituita.

E poi?

Dentro la pasta che lei mangia c’è un ultimo grande protagonista invisibile: il tempo.

Mi sembra di tornare al liceo, lezioni di filosofia greca.

Non c’è da scherzare. Noi siamo come la Ferrari della pasta.

Ovvero?

Abbiamo deciso che nel nostro ciclo di lenta essiccazione la pasta maturi in 36 ore. Calcoli che gli altri al massimo arrivano a 18 ore.

E perché avete deciso di allungare il ciclo?

Perché sappiamo che la selezione, la lievitazione e l’essiccazione rendono la pasta più digeribile e più…. Dolce, direbbe lei.

È vero che in questo ciclo non riutilizzate mai gli scarti, tritati? Non se ne accorgerebbe nessuno.

Quando con le macchine si taglia la pasta per impacchettarla resta una parte curva che corrisponde al punto esatto in cui spaghetti e bucatini e paste lunghe vengono appesi al nastro trasportatore.

Quasi tutti prendono quel ritaglio ricurvo, lo tritano, e lo infilano nella semola.

Non c’è nulla di nocivo, ovviamente, ma quella pasta è già cotta. Non ci piace l’idea di mischiare una semola cruda pura con un triturato di pasta già essiccata. Sono due materie diverse.

Mica la buttate?

No…. Finisce ridotta in polvere nei mangimi per bestiame. E poi c’è un altro aspetto…

Quale?

Quando provi a riciclare così gli scarti, in proporzione, hai meno potere nutrizionale. “Pasta- Paglia”.

Cioè?

(Sorride). È il gergo dei pastai. È la pasta di seconda scelta.

Mi ha detto di suo nonno, mi racconti di suo padre.

Gli devo tutto. È stato il mio maestro affettuoso e severo.

Mi faccia un esempio.

Avevo sei o sette anni. Forse è uno dei primi ricordi in assoluto con lui.

Quale?

Papà cala nell’acqua una sorta di scolapasta di metallo già diviso in tre.

A che scopo?

In ogni scomparto c’è un tipo di pasta diversa, ma cotta in contemporanea. Poi lui ce la serve nel piatto e ci guarda.

E cosa vi dice?

“Come vi pare la masticabilità?”. Chiedeva. “E la consistenza?”. E: “Quale preferite”?

Un addestramento?

(Sorriso) Anche. Noi, in fondo, abbiamo giocato a mosca cieca con penne e rigatoni.

Ma era un gioco o un test industriale?

Entrambe le cose. Noi bambini dovevamo indovinare quale pasta prendeva meglio il sugo, quale non scuoceva, quella che non diventava dura o – al contrario – collosa.

Eravate già diventati degli assaggiatori.

Io ho capito quasi tutto allora.

Ad esempio?

Incidere nella struttura di un rigatone, durante la trafilatura, significa rompere le fibre, e dunque indebolirlo per sempre. Quindi è importante come si fa.

Adesso va di moda la trafilatura a bronzo.

(Occhi sgranati).

Lei mi sta provocando?

No, perché?

Trafilare al bronzo significa alzare dei costi, perché il bronzo si consuma. Tutti i nostri industriali concorrenti usavano solo il teflon, perché è indistruttibile.

Però?

Se vuole il mio parere la trafilatura al teflon è un orrore. Gli altri andavano a teflon per risparmiare. Noi non ci siamo piegati alla moda.

Risultato?

Malgrado ci costasse di più abbiamo tenuto duro, e siamo riusciti a difendere un prodotto, il suo gusto, la sua qualità. A imporlo al mercato. Adesso che abbiamo vinto gli altri si svegliano e scrivono: “Trafilata a bronzo”. Spudorati.

Perché?

C’è stata una lotta darwiniana, e noi abbia difeso la specie di migliore qualità che rischiava di estinguersi di fronte ai vantaggi della produzione a basso costo.

Lei mi sembra Greta Thumberg quando parla di varietà animali.

Se la trafila a bronzo, esiste come prodotto premium sul mercato, è anche perché noi non ci siamo arresi. Ecco un esempio di un “concetto De Cecco” più complesso….

Quale?

La nostra innovazione tecnologica è al servizio della tradizione. Ma se tu non trovi il mondo di portare la trafila nel processo industriale devi sapere che la trafila si estingue, chiaro?

Chiarissimo.

Comunque lei si faccia consigliare da me: mangi sempre penne lisce.

Mi piacciono i rigatoni.

Ehhh... La penna liscia nel nostro mondo è la semplicità più classica, è come un racconto di Calvino o una canzone dei Beatles. Non invecchia mai.

È la prima volta che colgo un suo riferimento fuori dal codice agroalimentare!

Sono stato giovane anche io, nel secolo scorso, cosa crede? Pensi che ho conosciuto mia moglie all’Honey Pot, una delle più belle discoteche dell’Adriatico. Eravamo nel 1978.

De Cecco con la moglie Renata Miconi in discoteca

È stato giovane anche lei, dunque! Confesso che non riesco a immaginarla che balla come John Travolta.

Invece ballavo anche io. Quella santa donna ha sacrificato molto. Ricordo quanti 23 dicembre passati a chiudere le forniture al Molino dopo il picco di vendite delle feste, o i capodanni a chiudere i bilanci in ufficio. E lei che mi aspettava. Sempre.

Non avete avuto figli.

(Pausa. Silenzio). E’ stata la più grande sfortuna della mia vita. Un dolore che in me non si estinguerà mai.

Ho fatto una domanda sbagliata, forse.

No, se le sto parlando significa che mi può chiedere tutto.

Mi spieghi, allora.

La più grande sfortuna, perché non c’è nulla di peggio di non poter trasmettere il proprio amore, la propria passione, e una grande storia ad un figlio. Ma anche, per motivi opposti, la mia più grande fortuna.

In che senso?

Perché altrimenti – fa un cenno circolare con la mano per indicare l’ufficio, la fabbrica, il mondo – tutto questo non sarebbe potuto esistere. Ciò che lascerò in eredità ai posteri è tutto qui.

Mi faccia un esempio di questa passione.

Per anni ho dormito con un blocco A4 a quadretti sul comodino. Mi svegliavo sempre la notte, e ogni notte, partivo da due numeri disegnati sul foglio, e cercando di unirli con dei calcoli: “Oggi sono a 300 milioni di fatturato, come arrivo a 600”?

Ah ah ah.

(Serio). Non era una battuta.

E ora cosa c’era scritto ieri notte sul blocco?

Oggi? c’è scritto l’ultimo traguardo: da 600 a un miliardo. Ci arriviamo presto.

Lei ha costruito un secondo impianto ad Ortona.

Contro tutto e tutti. I miei parenti non erano d’accordo.

Ad esempio suo cugino.

Don Renato mi ripeteva: “Sono assolutamente contrario”. Ma io avevo già progettato tutto, dalla fine degli anni ottanta. Mi avevano dato, non mi ricordo più il dato esatto, quasi tre miliardi di finanziamenti.

E poi che succede?

Nel 1993 muore Don Renato e io parto a razzo. Nel 1995 producevo già spaghetti e penne lisce.

Le grandi famiglie del capitalismo italiano.

Non ci creda a questa fesseria. Non funzionano mai: si parte dai giganti, i fondatori, poi arrivano fratelli, sorelle, figli, mariti… e decidere cosa fare diventa impossibile.

Non ho mai sentito nessun protagonista parlarne così.

(Sorriso, incisivi). Io sono libero di dire la verità.

Quella fabbrica di Ortona adesso continua a crescere.

Ho fatto un piano quinquennale per i prossimi cinque anni. Nuovi silos, 12 milioni di euro. Una nuova fabbrica e il potenziamento di quella esistente. In tutto spenderemmo 100 milioni e ,con nuove produzioni, arriveremo al fatturato di un miliardo.

Quali?

Gnocchi e pasta ripiena. Una fabbrica avveniristica, progetto dall’architetto Cucinella di Bologna. È lui che ha disegnato la fabbrica Ferrari.

E cosa avrà di diverso?

Tutto. È appassionato alla sostenibilità, questa struttura… abbatte le emissioni, ha moltissime zone di relax per i dipendenti.

Lo dice quasi con tristezza.

(Ride). Manco negli alberghi di lusso. Io mi sono arreso a Cucinella. E inizia una nuova storia. Faremo sughi, salse e derivati del pomodoro. Voglio correre, forse con un’acquisizione per far prima.

Ma non è che dicendo le aumentano i prezzi?

(Sorriso). O magari dicendolo aumenta l’offerta?

In cosa si considera davvero eccellente?

Nella passione. Non è facile mantenerla invariata per una vita, mi creda.

E poi?

Ero un predestinato. Una terza generazione, ma mi sono conquistato tutto.

I brevetti di Filippo primo…

Eravamo bravi pastai, però ignoranti.

Ma se lei ha due lauree!

(Ride di gusto). Lo so. È vero. Io mi sono migliorato. Gli altri meno.

Cosa riconosce a suo cugino Renato?

Era un ottimo tecnico. Ma senza un altro salto evolutivo ci saremmo estinti. Ecco la lezione di Filippo Secondo.

Cioè lei. Cosa le disse suo padre?

“Sei bravo. Tu questo hai da fa’ e basta. Li sovrasterai tutti!”.

Avete fatto anche cose normali di padri e figli?

Ho un ricordo bellissimo, lezioni di guida nel parcheggione di Pescara.

Perché bellissimo?

Era una cosa che faceva per me, con la sua adorata Lancia. Io grattavo e lui mi gridava disperato: “Cazzone Americano! Così mi distruggi il cambio!”.

Ha avuto un ictus e lei è diventato amministratore delegato a poco più di vent’anni.

Lui aveva 76 anni, rimase mezzo paralizzato, non parlava più. Ma in quegli anni, senza parole mi ha detto tutto. È morto nel 1983. Stava male. Un giorno, ero tornato a casa a pranzo, sono corso da lui. Mi è morto tra le braccia, come se mi avesse aspettato.

Mi parli dell’abruzzesità.

Deluderò i lettori. Io ho la coccia dura che abbiamo qui, ma io sono nato guardando al mondo dal mare: non mi sento né abruzzese, né italiano, nè europeo.

E cosa si sente scusi?

Sono universale.

Mi racconti una follia che ha incrociato in questa vita con cui si spiega l’Italia.

Fra tante mie opzioni scelsi Ortona – trent’anni fa! – per il porto: sceglievo una infrastruttura.

Giusto. E allora?

Ma lo sa che ancora oggi mi servono undici metri di fondale, per le navi, e ne ho solo sei??? Tra poco serviranno quattordici metri ma in questo paese di matti non si riesce nemmeno a dragare. Altro che infrastrutture!

Quindi lei deve usare navi più piccole e travasare.

Mi costa 70 dollari in più alla tonnellata!

Cosa le ha insegnato sua madre?

Tutto il resto. Mi restano come lezione di vita i mille giri fatti correndo intorno al tavolo inseguito dal suo mattarello.

Ha avuto un grande maestro nella vita?

Il mio professore di matematica al classico. Severissimo: metteva voti folli. Ricordo un 4.45 che mi fece rabbia. Ma se posso leggere un bilancio, anche bendato, lo devo a lui.

E poi?

Il mitico Cerceo, professore di italiano e latino del D’Annunzio. Ancora oggi lo ringrazio per come mi ha aperto la mente. Vorrei che ai ragazzi di oggi potessimo garantire lezioni per la vita, come quella.

Mi racconti un dettaglio importante che la gente non conosce sul suo mestiere.

Il caso.

Cioè?

Glielo spiego con un aneddoto. Mi ero messo in testa che avremmo dovuto sposarci con Rana un'azienda fantastica, professionisti indiscussi, persone perbene, ci stimavamo e…

E?

Era tutto pronto. Una mattina dovevo partire in aereo privato per raggiungerli a Verona.

E cosa accadde?

Un banalissimo guasto.

E non è andato il giorno dopo, risolto il problena?

No, fossi andato forse sarebbe cambiato tutto e invece non se n’è fatto più nulla.

Era ammattito?

Ecco la lezione. In questo mestiere ti scatta la molla, dentro in un determinato momento. Oppure no. È il complesso meccanismo generativo e creativo di ogni idea e di ogni progetto. Accade così.

Adesso bisognerebbe chiudere l’intervista con una battuta folgorante e memorabile.

Ce l’ho.

Quale?

Quando stai sul mercato capisci tutto delle persone, e forse della vita.

E quindi?

(Incisivi che brillano, l’ultima volta). Se fosse vero che le persone non desiderano il meglio o se ne fregano dell’alta qualità per risparmiare, oggi non saremmo il terzo pastificio al mondo.

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