L’INTERVISTA

Cazzullo e l’Abruzzo: «Regione bellissima, qui seguivo Ciampi»

4 Febbraio 2025

Il giornalista e scrittore si racconta al Centro. L’amore per l’Abruzzo, gli anni a Parigi e la passione per la poesia in seconda elementare: “volevo fare il poeta, poi grazie alle botte dei miei compagni ho scelto la prosa”

ROMA. «Lavoro molto, forse troppo. Mi piace quello che faccio e quindi ho difficoltà ad eliminare qualcosa, ma prima o poi dovrò farlo: troppo lavoro alla lunga mi rende nervoso».

Eppure Aldo Cazzullo, piemontese classe 1966, non sembra nervoso. Sta girando l’Italia insieme a Moni Ovadia per il suo nuovo spettacolo “Il romanzo della Bibbia”, tratto dalla sua ultima fatica letteraria “Il dio dei nostri padri” (Harper Collins), da mesi in cima alle classifiche dei libri più venduti. È a Roma per meno di 24 ore. Il tempo di andare al teatro Volonté di Velletri e la mattina dopo si riparte per Trieste. Ogni giorno ha la rubrica delle lettere sul Corriere della Sera, di cui è vicedirettore. E poi le interviste, gli editoriali, il programma “Una giornata particolare” in onda su La7.

Insomma, tra tutti questi impegni sembra difficile mantenere la calma. Ma Cazzullo, oltre che calmo, è anche disponibile: «L’intervista? Venga con me a Velletri. Parliamo in taxi».

Scrittore, giornalista, conduttore televisivo e autore teatrale. Come fa Cazzullo a fare tutto questo senza cadere nella superficialità?

Applicando una buona vecchia regola che ho imparato quando ero ragazzo: nessuna storia senza idea, nessuna idea senza una storia. Per un narratore è un principio fondamentale.

Si spieghi meglio.

In tutti i miei lavori cerco sempre di avere un’idea forte alla base. Raccontare un’idea senza una storia significa parlare solo di concetti astratti. Ed è noioso. Ma anche una storia senza un’idea significa fermarsi agli aneddoti, ai dettagli. Questo sarebbe superficiale.

E quanto tempo ci mette a scrivere un libro?

Potrei risponderle sei mesi, ma la verità è che ci metto tutta la vita. Ogni idea parte da un’esperienza. Un viaggio, una conversazione, un appunto.

La passione per la scrittura l’accompagna da sempre?

Sì. In seconda elementare mi credevo anche un poeta, ma devo ringraziare i miei compagni di classe per avermi rimesso sulla strada giusta, quella della prosa (sorride, ndr).

Sembra interessante. L’ascolto.

A 7 anni scrivevo poesie. Orribili, a dir la verità. Ma per qualche strano motivo piacevano molto alla mia maestra, che costringeva la classe ad impararle a memoria.

Gli altri bambini erano contenti?

Non proprio: mi aspettavano fuori dall’aula per picchiarmi. Grazie a loro ho abbandonato la poesia per la prosa. Ed è andata meglio.

Quando ha scritto il suo primo articolo?

A 17 anni. Era per il Tanaro, un giornale di Alba, il paese dove sono nato.

Poi?

C’è stata la Gazzetta d’Alba e dopo ho collaborato con il Sole 24ore. Poi la scuola di giornalismo e a 22 anni sono entrato alla Stampa di Torino.

Era molto giovane.

Giovanissimo, avevo ancora tutti i capelli! Si può dire che non abbia vissuto la mia giovinezza. Entravo in redazione alle 16 e uscivo a mezzanotte. E Torino non era la stessa di adesso: a quell’ora era tutto chiuso.

È un rimpianto?

No. Sono entrato in questo mondo poco prima che i giornali smettessero di assumere. Sono stati anni molto formativi.

Di che si occupava?

Ho fatto due anni nelle cronache italiane e poi sono passato agli esteri. Una delle mie ambizioni era girare il mondo. Ma all’inizio è stato faticoso.

Perché?

Ero un ragazzo di bottega. Mi mandavano dove nessun altro voleva andare. In quegli anni sono stato in Bulgaria, in Romania, in Albania. L’estate, però, sostituivo il corrispondente da Parigi, che andava in ferie.

Deve essere stato bello. Racconti un aneddoto.

Potrei raccontarne tanti. Arrivavo a metà luglio e pensavo sempre che non sarebbe successo nulla. Poi capitava sempre qualcosa. Ah, sa che là ho incrociato la donna più bella che abbia mai visto in vita mia? Ed era nelle mani dei poliziotti.

Mi ha incuriosito.

Estate 1996. I sans papier, cioè gli immigrati senza documenti, avevano occupato la chiesa di Saint-Bernard. Grazie ad un informatore riuscii ad essere là quando ci fu lo sgombero. La polizia trascinò di forza gli occupanti e chi solidarizzava con loro. Tra questi c’era Emmanuelle Béart. Era bellissima.

Le è rimasta impressa.

Ricordo ancora come era vestita. Sognai di essere un supereroe, di prenderla tra le braccia e di portarla in salvo. Comunque, quello fu un bel servizio (sorride, ndr).

A Parigi si trovava bene.

Volevo rimanere. Feci le sostituzioni dal ‘92 al ‘98. Poi decisi di affrontare il corrispondente.

Ha tentato di fargli le scarpe?

Assolutamente no. Gli chiesi se avesse intenzione, prima o poi, di lasciare Parigi. Mi disse di sì. Voleva solo aspettare che il figlio imparasse il francese. Il problema era che aveva appena 20 giorni.

Ha dovuto abbandonare il sogno.

Le mie speranze si rivolsero a Bruxelles, che era una sede vacante. Mi era stato anche promesso il posto dall’allora direttore Carlo Rossella.

E poi?

Scoprii che aveva fatto la stessa promessa ad altri due colleghi. Ci rimasi male. Rossella fu l’unico direttore con cui non ebbi un grande rapporto. Eravamo molto diversi. Ma gli sono comunque grato.

Nonostante l’abbia illusa?

Grazie a lui incontrai Gianni Agnelli, che mi propose di trasferirmi alla sede romana del giornale. Fu un momento di svolta.

Come l’aiutò?

Rossella mi convinse ad inviare all’Avvocato un libro che avevo scritto sulla Torino degli anni ‘50: “I ragazzi della via Po”. Se non mi avesse stimolato non l’avrei mai fatto. Ad Agnelli piacque e mi invitò a parlare con lui. Una conversazione di due ore.

Il momento buono per chiedere di andare a Bruxelles.

L’ho fatto. Ma lui mi disse: “Ma che ci va a fare là? È una città noiosa, Piove sempre, Perché non va alla redazione romana?

E lei accettò.

Mi cambiò la vita: a Torino ero spesso in redazione, scrivevo poco. Soprattutto passavo i pezzi degli altri. A Roma ho cominciato a scrivere tanto e a girare l’Italia e il mondo.

Riuscì a raggiungere l’obiettivo di viaggiare.

In quegli anni seguivo i viaggi dell’allora presidente della Repubblica Ciampi. Ho visto luoghi che non avrei mai visitato. Dall’Argentina a Macerata, dalla Finlandia a Isernia. In quel periodo mi sono anche legato all’Abruzzo.

Come mai?

Ciampi era stato partigiano in Abruzzo. Quindi mi capitava spesso di andarci. Mi sono innamorato: avete le montagne, il mare, l’arte. Si mangia di tutto, dal pesce all’agnello. E poi gli abruzzesi sono accoglienti. Mi sono sempre sentito a casa.

Insomma, ha fatto bene a seguire il consiglio di Agnelli.

Direi di sì. Sono stati anni bellissimi coronati dalla paternità, l’esperienza più bella della mia vita.

Non deve essere stato facile conciliare il mestiere di giornalista con quello di papà.

Per niente. Soprattutto con Rossana, la più piccola. Nei suoi primi anni di vita non sono sempre stato presente. Ho dovuto faticare per conquistarla.

Rinuncerebbe a qualche impegno?

Sicuramente a qualche presentazione. Per ”Outlet Italia”, libro che ho pubblicato nel 2007, sono stato fuori per due settimane. Ricordo che ad una presentazione c’erano 37 persone. E una dormiva. Là mi sono detto: “Che ci faccio qua? Dovrei stare con la mia famiglia”.

Aspetti. I suoi libri sono in cima alle classifiche e lei conta i partecipanti alle sue presentazioni?

Certo. E sottraggo quelli che dormono. In effetti, quella volta erano 36. Comunque, poi mi sono reso conto che per i libri bisogna passare in televisione.

Su La7 conduce “Una giornata particolare”. Quando un talk show?

Non l’ho mai fatto e non penso che lo farò mai. E poi non amo neanche andarci come ospite: mi mettono un po’ l’ansia da prestazione.

Torniamo alla carta allora. Nel 2003 è arrivato al Corriere della Sera: è vero che Oriana Fallaci provò ad impedire la sua assunzione?

Nel 2002 ero a Firenze per il Social Forum. Tutti pensavano che sarebbe stato il seguito del G8 di Genova. Oriana Fallaci disse di essere pronta ad incatenarsi al battistero contro il movimento no-global. Zeffirelli, che intervistai, era pronto a presidiare il Ponte Vecchio Ma poi tutto filò liscio. Allora scrissi un articolo “sorridente” su questo.

E lei si arrabbiò.

Io ovviamente riconoscevo la grandezza del personaggio. Ma lei se la legò al dito. Provò a convincere Stefano Folli, allora direttore del Corriere, a non assumermi. Per fortuna Folli, pur adorando Fallaci, non le diede ascolto.

Fu una scelta lungimirante: 22 anni dopo è ancora lì.

Grazie al Corriere ho potuto seguire alcuni degli eventi più importanti degli ultimi anni.

C’è un servizio che l’ha segnata?

Più di uno. Fui particolarmente contento di essere a Berlino quando l’Italia vinse i mondiali di calcio nel 2006. I tedeschi sono sempre stati duri con gli italiani: veder festeggiare i gelatai e i camerieri emigrati fu una gioia.

Questo è un bel ricordo. Me ne dica uno impegnativo.

Il Bataclan fu difficile. Andare all'obitorio dove i genitori stavano riconoscendo i corpi dei propri figli fu un'esperienza che non scorderò mai. Non è legato al Corriere, ma anche la morte di Craxi mi ha segnato. Venticinque anni dopo ho deciso di scrivere un libro su di lui.

Che inizia con lei che afferma di essere stato anti craxiano.

Era vero. La notizia della sua malattia uscì il giorno dopo l’assoluzione di Andreotti. Tutti pensavano che fosse una farsa per trattare il suo ritorno in Italia. Io e Gianni Pennacchi (giornalista del Giornale, ndr) siamo stati gli unici a scrivere che lui voleva essere operato, morire ed essere sepolto ad Hammamet.

Come facevate a saperlo?

Avevamo un contatto nella sua inaccessibile villa. Ogni tanto lo citavamo dicendo che era una giovane speranza del socialismo italiano e lui ci raccontava cosa succedeva là dentro. Ci disse che di fronte all’offerta di essere operato al San Raffaele Craxi rifiutò. Poi ci furono i funerali.

Furono quelli a colpirla?

Fu tutto abbastanza grottesco. La bara era troppo piccola e misero dentro il corpo a fatica. Poi la portarono in chiesa con un furgone, come se fosse un pacco postale. L’intera vicenda mi apparve davvero come una tragedia.

Lei domanda a tutti i suoi intervistati come immaginano l’aldilà. Chiederlo l’ha aiutata a capire?

Io sono agnostico: so di non sapere. Per credere in un altro mondo serve avere fede in un Dio. Ma non basta: bisogna credere in un Dio misericordioso, che abbia cura di noi. Le voglio raccontare un’ultima cosa.

Ascolto.

Ho scritto il mio ultimo libro dopo aver ricominciato a leggere la Bibbia al capezzale di mio padre. Una volta mi disse di aver trovato la risposta alla mia domanda: “Aldo, l’aldilà esiste”. Gli chiesi come poteva esserne sicuro e lui mi disse che non lo era. Ma ne era convinto. In un’esperienza premorte non aveva solo sentito la presenza di suo padre, lo aveva visto. Da quel momento una fiammella di speranza si è accesa dentro di me.

Il taxi arriva a destinazione. Cazzullo saluta il conducente e mi stringe la mano. Moni Ovadia lo aspetta alle porte del teatro. L’attesa degli spettatori è giunta al termine: il racconto del romanzo della Bibbia sta per iniziare.

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