L’arte tra vizi privati e pubbliche virtù

19 Febbraio 2020

L’idea romantica dell’artista disposto a immolare la vita sull’altare dell’ispirazione sopravvive ancora alimentata da una fiamma sempre più flebile. In tempi come questi dominati dal politicamente corretto siamo, invece, sempre meno inclini ad accettare la sregolatezza privata come segno del talento pubblico. Al cinema come in televisione il pubblico preferisce gli eroi positivi. Ma neppure questo basta a intascare il consenso popolare. Agli artisti, infatti, si chiede un pedigree di bontà privata capace di metterli al riparo da critiche e accuse. Ma ci sono le eccezioni. Esistono artisti che chiedono di essere giudicati solo per ciò che sanno fare con il loro talento. Un attore come Flavio Bucci, morto l’altra notte, era uno di loro. Non implorava perdono per la sua vita sregolata, ma la esibiva sul palcoscenico con l’impudicizia dei grandi interpreti. Nel secolo scorso in Francia, una polemica divise un critico come Sainte-Beuve da Proust. Per il primo, l’opera letteraria non era separabile dalla biografia dell’autore. «Un libro», sosteneva invece Proust, «è il prodotto di un io diverso da quello che si manifesta nelle nostre abitudini, nella vita sociale, nei nostri vizi». La vita e l’arte di Bucci sono dalla parte dell’autore di “Alla ricerca del tempo perduto” e di una verità che, oggi, è sempre più difficile (ma necessario) sostenere.
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