L’intervista a Lino Guanciale
Una lunga chiacchierata con l’attore abruzzese. Tanti gli argomenti toccati. Dalla sua passione per il rugby all’impegno politico-sociale. E sui profughi: “ Ci scordiamo che 80 anni fa gli sfollati eravamo noi, quelli che emigravano eravamo noi”
Il bambino di tre anni scopre il cinema attraverso “La carica dei 101”, l’adolescente accarezza il lato onirico della celluloide grazie alla “Voce della luna” di Federico Fellini. E poi il giocatore di rugby di belle promesse si cimenta nella prima esperienza teatrale a scuola. Infine, il mancato medico diventa una star di cinema, tv e teatro. Lino Guanciale, 47 anni, avezzanese, cittadino del mondo, è tutto questo e altro ancora. Lo scopriamo in questa intervista a tutto tondo, in cui l’attore parla senza reticenze di tutto, dalla scuola al teatro, dalla televisione alla politica, dall’impegno sociale alla lotta a fianco dei più deboli. Ma non lo fa solo a parole, lo dimostra con i fatti e con i viaggi nelle aree più disagiate del mondo, a partire da quelli con l’Unhcr a sostegno dei rifugiati di parecchi angoli della terra.
Partiamo dall’inizio, Lino Guanciale che bambino era?
Il prototipo del bimbo abruzzese, da cliché, un po’ sulle sue, guardingo rispetto al mondo esterno. Un po’ solitario. E perché? Credo fosse perché avevo sviluppato da piccolo delle passioni che tendevano a non aggregarmi agli altri.
E come hai risolto?
Sono riuscito a superare lo scoglio della timidezza e questo mi ha consentito di costruirmi le amicizie. Il cinema, la letteratura, il teatro, è venuta fuori quella comunità di affetti.
E il rapporto con la scuola?
Per è me è stata decisiva. È lì che ho scoperto effettivamente il teatro, la leva che mi ha porta- to a scegliere il mestiere.
Una sorpresa, quindi?
Per la verità, da piccolo volevo fare o il giornalista o il medico, la scrittura era un grande in- teresse, mi stimolava e mi veni- va facile e la medicina l’ho avuta in casa con un esempio virtuoso, mio padre Clelio. (qui si apre con un sorriso) Lui medico lo è ancora adesso, che è in pensione, la sua è una missione. Avendo avuto quell’esempio e mi sono detto che potevo fare tutte e due. E qui poi arriva l’esempio emblematico di Jannacci.
Sono incuriosito.
Ti racconto l’episodio. Papà se lo è giocato quando ha capi to che facevo sul serio con la carriera artistica. È stato allora che mi ha detto “Allora fai come Enzo Jannacci, medico e musicista”.
Troppo tardi, vero?
Sì, anche se in realtà ho fatto il test di medicina, ma poi ho capito che la mia strada andava in un’altra direzione.
Il primo approccio con l’essere attore?
Ho cominciato a fare teatro a 19 anni, era nato come un togliermi uno sfizio. Mi attirava e allo stesso tempo avevo il terrore di avventurarmi in un sentiero poco battuto, insomma mi faceva paura e mi attraeva.
Quando sei andato al cinema la prima volta?
A tre anni mi portarono a vedere “La carica dei 101”, ma mi addormentai. Ero troppo piccolo. Più in avanti con gli anni, ne avevo undici, sono andato a vedere “La Voce della luna” di Fellini. Fu una grande emozione e fu evidente che avrei potuto approfondire questa cosa che era lo stare in scena. Una famiglia con padre Clelio medico e mamma Maria Pia Ceccarelli, insegnante, scomparsa nel marzo scorso.
Famiglia inquadrata, ma tu hai sempre avuto un’anima ribelle.
Sì, a dispetto dell’aspetto mite, sono di quelli che credono nella dialettica, con mitezza e questo è un tratto abruzzese. Quello che penso lo dico sem- pre e la scuola è stato un banco di prova decisiva.
ll percorso scolastico, pur brillante sotto il profilo del rendimento, non è stato troppo lineare. Ormai sono noti a tutti i contrasti con l’allora preside del Liceo scientifico.
(ride) Con il preside Angelo Bernardini, con cui successivamente mi sono riconciliato, sono stati fuochi d’artificio. Devo dire che era uno che credeva molto nella scuola e, anche se eravamo agli opposti, comunque accoglieva diversi tipi di attività. Certo, era guerra aperta come rappresentante di istituto e quando i bidelli si rivolgevano a me come capo d’istituto il guaio era fatto.
Un bel caratterino il tuo, insomma.
Di fronte alle scelte non mi sono mai tirato indietro. Carattere che in famiglia accomuna tutti, tendiamo con educazione a dire sempre: il re è nudo.
Lo sport è stato un compagno di viaggio. Parliamo del rugby. In che misura l’etica e la nobiltà di uno sport come quello della palla ovale ti ha condizionato nella vita?
Moltissimo da un punto di vista formativo. Devo molto allo scoutismo e al rugby, una delle prime scelte individuali. Ti racconto una cosa.
Sono tutt’orecchi.
Mio padre è stato un calciatore notevole; è un po’ che non capita che ci facciamo un giro insieme, ma nella Marsica lui viene riconosciuto più di me. Decisi di non giocare al calcio, forse condizionato dal fatto che mio padre era considerato una leggenda.
Solo il rugby quindi?
No, prima il nuoto, poi il rugby e fu una folgorazione. Addirittura Mi colpiva il fatto che la regola principale di questo sport fosse quella di dover passare la palla indietro.
Pare quasi un paradosso.
E infatti, il fascino è tutto in questo paradosso: puoi essere straordinariamente dotato di tecnica, di talento, ma da solo non fai nulla e questo è l’emblema dello sport di squadra.
Analisi interessante.
Inoltre, è democratico perché ogni tipo di fisico ha la possibilità di trovare un posto, come dimostra Ange Capuozzo, nazionale italiano, un piccolino che è un fenomeno. Nel rugby non servono solo i Sant’Antonio, tutti sono utili.
Il concetto di squadra, insomma.
Esatto, il concetto di squadra me lo sono ritrovato in scena, perché lì devi ascoltare gli altri, è stato importante fare uno sport che mi ha aiutato ad aprirmi agli altri. Lo consiglio, ormai fanno i corsi anche per i bambini di tre anni.
E il tuo piccolo Pietro, che ha tre anni?
Mi auguro che gli piaccia, anche loro una personalità in nuce e poi conclamata ce l’hanno. Vanno ascoltati, mi auguro che gli piaccia.
Qual è stata una partita epica che ricordi?
(si infervora) La finale per salire in serie A giovanile tra l’Avezzano rugby e il Noceto, perdemmo di 15 punti in trasferta e in casa vincemmo di 16, andammo in serie A per un solo punto. Fui protagonista di quela partita anche perché ero incaricato dei calci piazzati. Fu una delle grandi emozioni in pubblico, la prima esperienza con lo spettacolo.
Altri ricordi?
A livello macroscopico, la prima del Sei Nazioni nel 2000 con l’Italia vincente sulla Scozia.
Un campioncino, convocato anche in nazionale.
Sono stato capitano da piccolo. A 13 anni ero in ritardo con lo sviluppo, ero bello robustello e cercavo di far valere l’intelligenza in campo rispetto a forza e velocità. In partita feci la mia prima meta e fu esaltante perché realizzata da underdog.
Ti ricordi con chi hai fatto il primo provino da attore?
Il primo provino fu per una serie televisiva, ma uscii arrabbiato perché il casting di allora mi disse “Tu sei Guanciale, e il nome d’arte qual è?”. “Il nome d’arte trovalo per te”, risposi. Io sono stato particolarmente affezionato al nome che era quello di mio nonno. Ho fatto una scelta di marketing».
E per il cinema?
In un primo provino di cinema mi dissero che ero bravo ma avevo un viso molto antico. Lo raccontai a mia madre che mi accolse con “Ma che bella cosa che ti hanno detto!”. L’aggettivazione degli attori è di essere sempre sotto il giudizio di tutti. Ci devi fare pace. Mi sono sentito dire altre cose che mi fanno sorridere. (assalito dai ricordi abbozza un altro sorriso)
Come mai?
Ripenso a mio padre. Quando gli dissi che non avrei fatto il medico, ma l’attore ci fu una discussione molto tesa chiusa con una frase di cui gli sono debitore. “Ma j com cazz t’aiut”. Poi la sua rassegnazione mista a gioia. Per farla breve mamma e papà non si sono mai persi uno spettacolo.
Quali sono i tuoi amici nel mondo del cinema e della tv?
Io sono stato fortunato perché ho sempre coltivato le amicizie in contesti molto belli. Sono amico di Andrea Bosca, di Francesco Montanari, di Valentina Romani. E poi Elena Sofia Ricci, cui sono legato da quando ho conosciuto il compagno della madre, Pino Passalacqua, che è stato il mio insegnante. Ce ne sono anche tanti altri, come Pierpaolo Spollon, Vinicio Marchioni, Giacomo Ferrara.
C’è il personaggio di un film o di una serie in cui ti sei identificato?
In realtà, per quanto riguar-da quelli che ho fatto io penso al commissario Cagliostro della Porta rossa e a Ricciardi. Però credo che nella serie Sky Un estate fa l’avvocato Santamaria mi somigli di più. Lui era un uomo normale, quindi partiamo da una base di comunanza.
E film da non protagonista?
Qui si apre il ventaglio, ma io amo molto Forrest Gump e per questo i miei amici mi prendono in giro. Il bene e il male difficilmente uguagliabile. In questo mi sento molto coinvolto.
Qual è stato il tuo primo successo, quello che ti ha dato la consapevolezza che la strada fosse ormai tracciata?
Cito tre esperienze: una teatrale, una cinematografica una televisiva. Con “La classe operaia va in Paradiso” (ci ha vinto premio Anct e del premio Ubu), quando avevo 26 anni interpreai Figaro in La folle giornata di P. A. Caron de Beaumearchais, da cui Mozart trasse le nozze di Figaro, e quel ruolo fu decisivo. Non mi conosceva nessuno e allora l’obiettivo era costruire un rapporto con il territorio, eravamo in Lombardia, fu un successo. Dovemmo aggiungere una settimana di repliche, la gente di divertiva molto.
Fu il momento della svolta?
Quel primo ruolo di protagonista, anche senza popolarità massiva, mi fece capire che potevo fare questo mestiere. Ero uscito dall’accademia Silvio D’Amico da 3 anni.
E in televisione?
In tv è stata la Porta Rossa, laddove ho fatto il protagonista, e poi la Dama Velata che fa ancora ascolti altissimi. Manca il cinema. Direi Il Gioiellino al cinema con Toni Servillo, Remo Girone e con il regista Andrea Molaioli. In quel momento ho capito che quel mondo che mi pareva inarrivabile, con testi importanti, in qualche modo era percorribile.
Qual è l’attore che ti ha ispirato e chi, dei tuoi colleghi ammiri di più?
Elio Germano, Michele Riondino (lui con Palazzina Laf è stato straordinario). Ma quando ho cominciato avevo come modello un attore americano, Edward Norton, un viso da ordinary man che raccontava il cinema.
Nella nuova stagione delle fiction c’è grande attesa per Il conte di Montecristo, una produzione internazionale con Jeremy Irons. Un grande classico. Che esperienza è stata? Potentissima perché incontrare Billy August, Oscar e Palma d’oro, uomo totalmente al servizio del lavoro e di una umiltà e intelligenza rare, è stato bello ed emozionante. Con i colleghi ci siamo divertiti molto, io e Michele abbiamo girato molto insieme. Io sono il brigante Vampa che ha la sorte di sdebitarsi con il conte di Montecristo e interpreta il ruolo del conte Spada, essenziale come grimaldello per la sua vendetta. Mi ha più impressionato l’enorme collaborazione.
La tua vera passione è il teatro, che resta centrale nella tua attività di attore. Proietti, Ronconi, Placido sono alcuni dei registi che ti hanno voluto. Che ricordo hai di loro?
Di Proietti, che ho conosciuto a fondo per un tempo troppo breve, con Romeo e Giulietta, mi porto dietro un insegnante fondamentale. Quando eravamo in quinta lo vedevamo spaventato, e gli dicevamo: “Ma Gigi può essere che hai paura tu?” E Lui rispose: “Al palcoscenico devi dare del lei, non del tu, Se non avete paura del palcoscenico fatevela venì”.
Ronconi?
È stato il regista più sconvolgente con cui ho lavorato, uno dei grandi della regia del secondo Novecento. Nel costruire lo spazio senti che ti sta cambiando la testa Mi sono sentito così solo quando ho visto Ronconi lavorare nello spazio e sentito recitare Franco Branciaroli.
Manca Placido.
Placido è un signore al quale devo tanto e al quale voglio molto bene. Feci uno spettacolo teatrale, Fontamara, nei borghi e nelle piazze e da lì è nato un rapporto di stima e affetto profondissimi. Nel film su Vallanzasca per esempio, mi ha scelto lui e mi ha dato una gran- de opportunità.
L’Abruzzo nel cuore, tra Silone, Flaiano. Un legame che porti spesso anche in teatro.
Mettemmo insieme uno spettacolo con Davide Cavuti, mettemmo in scena tante repliche. Ritengo Flaiano una intelligenza particolare, per una regione come la nostra può essere inserito nel Pantheon della tradizione intellettuale, è un patrimonio mondiale. Credo che sia una delle intelligenze letterarie più importanti del secondo Novecento.
Non c’è dubbio.
Penso sempre alla battuta di George Best a Johan Cruijff. “Sei un maestro solo perché non ho tempo”. Ebbene, Flaiano è più o meno la stessa cosa.
Parliamo di impegno politico e sociale. Ci vuole anche coraggio a prendere posizione e diventare dirigente del Pd in un momento storico in cui la politica pende dall’altra parte. Hai mai avuto problemi, ostacoli nella tua carriera?
In realtà non avevo bisogno di fare coming out, ho sempre detto quello che penso e il fatto che lo abbia sempre detto con onestà e trasparenza mi ha sempre aiutato. L’incarico di responsabile cultura nella segreteria regionale ce l’ho da tempo, ho accettato di far parte della squadra di Michele Fina e ora di Daniele Marinelli. Ho grande fiducia in questa squadra di giovani, menti intellettualmente lucide. È un’iniezione di vitalità nella proposta politica regionale.
Proprio nessun problema?
Guarda, io rispetto tutti finché non si superano i limiti della Costituzione. Credo ingenuamente che se uno le cose che pensa le dice senza offendere nessuno sia un esercizio di democrazia. Voglio essere chiaro: chi tende il braccio destro non va rispettato.
Essere testimonial dell’Unhcr è sicuramente impegnativo. Quali sono stati i tuoi ultimi viaggi all’estero?
Avevo in programma un viaggio in Giordania a metà ottobre del 2023 e poi con quel che è accaduto il 7 ottobre (Hamas e altri gruppi terroristici hanno compiuto un attacco improvviso penetrando in territorio israeliano lungo il confine con la Striscia di Gaza, provocando la morte di circa 1.200 persone, di cui 800 civili ndr) tutto è saltato. L’ultimo mio viaggio è stato in Etiopia nel 2019 e due anni prima a Beirut e nella valle di Beqa, quella più toccata dalla tensione con Israele.
Come è nato tutto?
L’Unhcr mi ha proposto di collaborare con loro e ho sempre pensato che i temi dell’accoglienza e dell’integrazione fossero i temi dell’inclusione. Dell’attualità e della vita quotidiana. Sono un’agenzia Onu, sono presenti in tutto il mondo».
Il tema dei rifugiati è molto attuale.
Il fatto che queste persone fuggano in Paesi limitrofi, ugualmente in difficoltà, mi ha convinto molto e aiuta a sfatare determinati miti legati all’emergenza, alla “sostituzione etnica”. Pensate che il Paese più efficiente al mondo è l’Uganda che ne accoglie milioni, in Libano i siriani erano un milione e mezzo. Riflettete: una popolazione di 5 milioni accoglie un milione e mezzo di siriani».
Ci racconti questa esperienza attraverso uno o più ricordi, aneddoti, testimonianze?
Un esempio. Io in questi viaggi documento insieme a uno staff di videomaker e fotografi quello che vedo, nelle case dei rifugiati, nei luoghi di formazione che Unhcr gestisce. Mi ricordo di un giovane padre di tre figli. Prima di farmi entrare per una chiacchierata, mi disse: “Tu perché sei qui? Che utilità puoi avere per noi? “La gente clicca i miei video” fu la mia risposta. E allora si è fatto dare il mio cellulare per verificare quanti follower avessi e solo dopo aver testato il numero mi ha fatto entrare.
Grande diffidenza.
Direi l’enorme dignità nel far entrare nella propria privacy un perfetto estraneo per ottenere un’utilità concreta per la propria gente, E penso a cosa potrei fare io. Ci scordiamo che 80 anni fa gli sfollati eravamo noi, quelli che emigravano eravamo noi. La storia ci insegna che il futuro non è un libro che leggi e riesci a scorrere in maniera lucida e lineare. Cambiare significa rinunciare a un po’ del pro- prio benessere per equilibrare.
La gestione a titolo gratuito della stagione di prosa del teatro dei Marsi è stata archiviata. Un’occasione persa per il territorio?
Spero di tornare a fare qualcosa dalle nostre parti. Se non al teatro dei Marsi sarà altrove La famiglia è diventata il centro del tuo mondo.
Hai sposato Antonella Liuzzi, ex project manager della SDA School of Management della Bocconi, e avete un figlio Pietro, di tre anni. Come riesci a conciliare la tua intensa attività artistica con quella familiare?
Siamo alle prese con un nostro progetto che riguarda i rifugiati e l’arte contemporanea che la sua, e ora anche mia, grande passione. Lo scambio tra di noi è in crescita. Lo è sempre stata, ma venire da mondi diversi può essere foriero di scoperte continue e si trovano cose intorno alle quali coagulare un’idea progetto.
Qual è il libro che stai leggendo ora?
Ho appena finito di leggere “Bambino” di Marco Balsano e un libro di Paolo Di Paolo, sempre molto intelligente. Attualmente ho un libro di Fontana, “Morte di un uomo felice”,
Ultimo film visto al cinema?
Vermiglio, che ho trovato magnifico. Speriamo bene per l’Oscar, ma quello che vale è il percorso della regista…È un percorso purissimo.
Il tuo rapporto con i fumetti è molto stretto e hai prestato la voce a Dylan Dog, l’indagatore dell’incubo, in un’avventura radiofonica molto parti-colare.
Leggevo tanti fumetti, sono un grande collezionista Dylaniano, quando dalla Bonelli mi hanno chiesto ho accettato subito. “I Conigli orsa uccidono” l’ho letto a 6 anni. Ce lo passavamo nel campo scout. E la musica di Marlene Kuntz l’ho scoperta attraverso Dylan.
Ultima domanda, cosa stai girando attualmente?
«Sono impegnato nelle ripresa di una nuova serie su RaiUno su Mario Tobino, scrittore e psichiatra. E poi in teatro torno con “Ho paura torero”, al Piccolo di Milano e poi all’Argentina di Roma. Il regista Longhi, la scenografa e io come migliore attore protagonista concorriamo per il premio Ubu.