Quante lacrime al Festival di Sanremo
Stasera sapremo chi avrà vinto il Festival di Sanremo. Avremo poi dodici mesi per dimenticarlo. Non che ci si impieghi tanto. Da qualche tempo, infatti, bastano pochi giorni per perdere memoria di canzone e cantante vincitori. Colpa anche dell’aria di mestizia che circola al Festival, di cui non vediamo l’ora di liberarci. Anche quest’anno, per esempio, sono stati commemorati cantanti dipartiti come Mia Martini e Pino Daniele. Ma anche i viventi non sprizzano allegria. Anzi, sempre più spesso ricordano i loro guai nelle interviste. Rovazzi dedica la sua canzone al papà morto. Renga ricorda la malattia del padre. Per non parlare di alcuni brani che, più che essere cantati, sono salmodiati come preghiere ma che, nei titoli dei giornali, immancabilmente «commuovono Sanremo». Sì, al Festival i cantanti rischiano di scivolare su pozze di lacrime. Non proprio quello che serve a un Paese con guai fin sopra la cima dei capelli e ottimismo sotto i piedi. Sono lontani i tempi in cui Modugno invitava gli italiani a Volare nel Cielo dipinto di blu. Così come sono degni di rimpianto quelli in cui Lucio Battisti celebrava l’Avventura: «Non sarà un'avventura/Non può essere soltanto una primavera/Questo amore non è una stella/ Che al mattino se ne va/Oh no no no no no no». Tornate, Modugno e Battisti, tornate. Salvateci dal cordoglio.
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